Insegnanti e burnout

Insegnanti e burnout

La figura dell’insegnante ha da sempre ricoperto un ruolo di particolare importanza sia per l’insegnamento, in quanto tale, sia per il ruolo educativo.

Nel corso degli anni la scuola è stata, ed è ancora oggi, protagonista di molteplici cambiamenti alcuni anche incomprensibili.

Ovviamente quando si parla di benessere degli studenti non si può non fare riferimento anche al benessere dei docenti, condizione indispensabile per un effettivo coinvolgimento dei giovani in formazione nel loro personale percorso di crescita culturale e umana.

L’insegnate, che opera nell’ambito delle istituzioni educative, è un “lavoratore della conoscenza”, appartenente ad uno specifico progetto educativo. Svolgono un importante ruolo in cui l’educazione viene considerata come un processo continuo volto a promuovere l’autonomia e la consapevolezza nelle scelte legate alla salute e al benessere e si basa proprio sul protagonismo dei docenti che trasmettono tali parametri.

Soprattutto oggi il compito primario della scuola mira a prevenire, combattere il disagio, la demotivazione, la dispersione scolastica, la devianza per consentire agli studenti livelli il più possibile elevati di benessere psicofisico, di motivazione ad apprendere. Quotidianamente, attraverso la scuola, gli alunni hanno la possibilità di cogliere straordinarie opportunità: crescita intellettuale, acquisizione di responsabilità, maturazione; ma allo stesso tempo si misurano anche con le difficoltà, gli errori, la fatica. Di fondamentale importanza sono le relazioni, il clima scolastico che possono influenzare la qualità di vita dello studente.

Nelle società post-industriali, e soprattutto nei contesti urbani, l’organizzazione della vita si è profondamente modificata rispetto al passato. La quantità di mansioni e compiti che è necessario assolvere quotidianamente continua ad incrementarsi. Lo sviluppo tecnologico ha favorito l’accelerazione delle comunicazioni, ma ciò implica anche maggiori aspettative in termini di rapidità ed efficienza delle prestazioni.

Le ricerche su stress e burnout lavorativi sono in aumento, e non senza ragione. La sindrome da burnout (o più semplicemente burnout) è l’esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che esercitano professioni , qualora queste non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro li porta ad assumere. Numerosi studi hanno mostrato in particolare come tra le categorie professionali particolarmente esposte a burnout vi siano gli insegnanti, a qualsiasi ordine di scuola appartengano (Byrne, 1991; Guglielmi e Tatrow, 1998). Lo stress da lavoro esprime il disagio di chi, dopo aver investito molto in un’attività lavorativa, si sente demotivato, scoraggiato, incapace di agire, privo di entusiasmo, assume un atteggiamento difensivo, prova angoscia e sofferenza fino a perdere l’efficienza sul piano professionale.

L’insegnante è chiamato a svolgere molteplici ruoli all’interno dell’organizzazione scolastica. È possibile far rientrare il lavoro dell’insegnamento tra le professioni di aiuto per gli altri. Insegnare significa dedicarsi alla crescita intellettiva, sociale, educativa e umana dei giovani.

L’insegnante, con il suo bagaglio di personalità, di motivazioni, di obiettivi, di esperienze, di competenze, ecc., è costretto a lavorare in una struttura organizzativa, la scuola, estremamente complessa, con il suo bagaglio di regole, obiettivi e strumenti. A ciò si aggiunga che la scuola, negli ultimi anni, sta subendo una serie interminabile di riforme che dovrebbero ridefinire regole, obiettivi e strumenti. Possiamo immaginare quale possa essere la condizione dell’insegnante nella scuola, a quali stress, frustrazioni, ansie, ma anche a quali gratificazioni e stimoli possa essere sottoposto. Nel corso degli anni il ruolo dell’insegnante ha subito delle modifiche: all’insegnante sono richieste nuove competenze (sociali, psicologiche, relazionali e gestionali) per le quali non solo non ha una formazione adeguata, ma non fanno altro che sovraccaricarlo di lavoro e confonderlo nei ruoli.

Un ruolo fondamentale è svolto dall’opinione pubblica la quale preme sulla scuola affinché diventi capace di rispondere alle richieste del mondo del lavoro, vuole insegnanti sempre più qualificati. Alle eccessive pressioni esterne, cui è soggetto l’insegnante, un ulteriore fattore di stress è la difficoltà relazionale. L’insegnante deve, prima di tutto, saper comunicare e relazionarsi con gli studenti e con le loro famiglie, ma anche con i colleghi, con i superiori e con tutte quelle figure professionali che sono in stretto contatto con il mondo della scuola.

La categoria degli insegnanti è sottoposta a numerosi stress di tipo professionale. L’origine dello stress può essere ricondotta ad alcuni fattori riguardanti: la particolarità della professione; la trasformazione della società verso uno stile di vita sempre più multietnico e multiculturale; il continuo evolversi della percezione dei valori sociali; l’evoluzione scientifica; il susseguirsi continuo di riforme; la maggior partecipazione degli studenti alle decisioni e conseguente livellamento dei ruoli con i docenti. Altre cause che portano alla sindrome del burnout negli insegnanti possono essere:

Rapporto con studenti / genitori
Classi numerose
Conflittualità tra colleghi
Costante necessità di aggiornamenti
Problemi adolescenziali
Retribuzione insoddisfacente
Scarso riconoscimento sociale della professione
Preparazione pedagogica inadeguata.

Nonostante la molteplicità di fattori scatenanti il burnout, l’individuo, in questo caso l’insegnate, possiede delle specifiche abilità di coping che possono contribuire al superamento di tale situazione di malessere. Possiamo distinguere:

– strategie dirette, che mirano ad affrontare la situazione in modo positivo
– strategie diversive, tese a schivare l’evento
– strategie di fuga o di abbandono dell’attività, per sottrarsi alla situazione stressogena
– strategie palliative cioè incentrate sul ricorso a sostanze come caffè, fumo, alcool, farmaci.

La sindrome del burnout appare seria e insidiosa ma può essere combattuta soprattutto se si tengono in considerazione i sintomi che la contraddistinguono. Si rende necessario all’apparire dei primi segnali di stress il ricorrere ad un supporto psicologico o ad un aiuto esterno da parte di esperti. Il burnout può avere gravi ripercussioni sull’agire del singolo individuo, a volte i sintomi che lo compongono possono presentarsi in maniera cronica e duratura.

Linee guida per la gestione delle situazioni di emergenza con i bambini

Linee guida per la gestione delle situazioni di emergenza con i bambini

I comportamenti consigliabili agli adulti nei confronti dei bambini dopo una catastrofe o un evento traumatico possono essere:

– Essere un esempio di calma e controllo. I bambini prendono i suggerimenti emotivi dagli adulti significativi nella loro vita. Evitare di apparire ansiosi o impauriti.

– Rassicurare i bambini che sono al sicuro e lo sono anche gli altri adulti importanti nella loro vita.

– Ricordare loro che la responsabilità del caso è in mano a persone fidate. Spiegare che operatori di emergenza, polizia, dottori e persino l’esercito stanno aiutando le persone che sono ferite e stanno lavorando per assicurare che non si verifichino ulteriori tragedie.

– Fare sapere ai bambini che sentirsi sconvolti è normale. Fare sapere che tutti i sentimenti vanno bene quando avviene una tragedia. Lasciare parlare i bambini dei loro sentimenti e aiutarli a metterli in prospettiva.

– Osservare lo stato emotivo dei bambini. A seconda della loro età è possibile che non esprimano verbalmente le loro preoccupazioni. Cambiamenti nel comportamento, nell’appetito e nel modo di addormentarsi possono indicare un livello di dolore, ansia o disagio.

– Dire ai bambini la verità. Non cercare di fare finta che gli eventi non siano accaduti o che non siano gravi. I bambini sono scaltri. Essi si preoccuperanno di più se ritengono che siete troppo spaventati per dir loro ciò che è accaduto.

– Attenersi ai fatti. Non alleggerire o far congetture su ciò che è accaduto e ciò che potrebbe accadere. Non dilungarsi sulla dimensione o portata della tragedia in particolare con i bambini piccoli.

– Fare in modo che le vostre spiegazioni siano appropriate:

I bambini delle prime classi elementari hanno bisogno di informazioni semplici.

I bambini delle classi elementari superiori e delle prime medie possono aver bisogno di separare la realtà dalla fantasia.

Gli studenti più grandi hanno convinzioni più forti e vogliono aiutare chi è in pericolo.

– Fare in modo che possano esprimere i loro sentimenti di paura ed ansia attraverso ogni canale di comunicazione (parlare, dipingere, scrivere) in modo che il loro malessere sia manifestato

Genitori e figli. Chi comanda?

Genitori e figli. Chi comanda?

Nella prassi educativa corrente si sta perdendo di vista il significato del rimprovero. A causa, anche, della visione sempre meno tradizionale della famiglia che si sta cercando di accantonare. Può essere sicuramente vista come qualcosa di positivo, ma non sempre in maniera univoca. Pensate che esercitare il vostro potere di adulti nei confronti dei figli, specie se piccolissimi, sarebbe un abuso?

Ebbene, vi sbagliate. Prendete esempio dai bambini, anche dai primi mesi di vita hanno un’idea ben chiara del potere che hanno e dei metodi a loro disposizione per esercitarlo e, al contrario di voi, non si fanno scrupoli ad usarlo. Proprio questo potere è parte integrante della relazione genitori-figli e imparare a gestirlo diventa fondamentale. Un neonato può esprimere e ottenere ciò che desidera, mostra cioè di possedere la capacità di fare o ottenere qualcosa. Contrariamente alla mamma, però, non ha il potere di prendere decisioni e di metterle in atto. Quella rimane prerogativa del genitore, se ne è in grado, ovviamente.

Non abbiate paura di usare il vostro potere, ma con misura e consapevolezza. È perfino lecito, in un momento di furore, allungare uno sculaccione, ma senza arrivare a questo ci sono molti modi con cui porre limiti al bambino, limiti di cui vi sarà grato perché ne ha bisogno per crescere. Il modo più classico è quello del rimprovero. Il rimprovero è una comunicazione regolativa, non incoraggiante. Deve essere espresso senza enfasi e senza tensione.

Occorre un tono fermo, deciso, autorevole che si esprime in una comunicazione concisa, forte e centrata sui fatti concreti. Al rimprovero deve seguire un breve silenzio, in modo che il messaggio venga assorbito. Ma se da un lato l’educazione di un bambino dipende dalla correzione di comportamenti negativi, dall’altro entrano in gioco aspetti che incoraggiano il comportamento positivo.

Sarà successo anche a voi, da bambini, che vi abbiano detto “sei stato bravo” e di aver provato una sensazione piacevole. Ora, è bene tenere presente che questo è un sentimento che alberga naturalmente nell’animo di un bambino prima ancora che ne afferri il significato logico. Malgrado l’istinto lo spinga a cercare soddisfazione immediata dei suoi impulsi, il bambino desidera comunque accontentare i genitori, vederli sorridere di compiacimento per ciò che ha fatto, felici di lui.

Tuttavia bisogna sapersi contenere, ovvero non cadere nella tentazione di lodarli sempre, minando la loro autostima invece che accrescerla. La lode rischia di trasmettere ai bambini l’idea che siano amati solo quando si comportano in modo consono alle aspettative dei grandi. Può scalfire le motivazioni personali, perché il fare bene una cosa smette di essere un piacere e una soddisfazione di per sé, ma solo un modo per essere apprezzati dall’adulto, col rischio di innescare una sorta di dipendenza dall’approvazione di mamma o papà. Oltre a far sentire i più piccoli sempre sotto giudizio, tanto da renderli insicuri nell’esprimere le proprie idee e scoraggiarli nel mettersi alla prova, perché preoccupati di essere all’altezza della situazione.

Quello del genitore non è, di certo, un lavoro facile, soprattutto se lo si fa per la prima volta. Ma non dovete temere di essere inadeguati, bisogna semplicemente trovare un equilibrio, senza pensarci troppo, in modo naturale e conseguente. E se un giorno vi rendeste conto di aver fatto degli errori, di essere stati troppo severi o, al contrario, troppo transigenti, ricordatevi sempre che nessuno è perfetto, così come non lo eravate voi non lo saranno loro.

E così mentre loro cresceranno imparando dagli errori propri e altrui, voi vi renderete conto che in fondo, i vostri figli, non sono poi così indifesi.

All’asilo senza piangere

All’asilo senza piangere

Urla, pianti, capricci… questo ed altro la mattina del primo giorno di asilo.

Non sempre infatti i piccoli scolari sono ben disposti a cominciare questa nuova avventura, e il loro dissenso viene apertamente manifestato sia con i genitori che con le maestre.

Sicuramente si tratta di un cambiamento importante a cui si deve dare il giusto peso.

Genitori e maestre devono essere capaci di accogliere il disagio del bambino, per poi restituire lui una maggiore tranquillità. È frequente che i bambini vadano all’asilo (o al nido, per cui vale lo stesso discorso e gli stessi consigli) “a correnti alterne”: manifestando gioia o disperazione a seconda del loro stato d’animo.

Capita anche che l’arrivo di un fratellino o di una sorellina che sta a casa con la mamma mentre il piccolo è all’asilo, sia fonte di gelosia e di capricci per non andarci. Il più delle volte, il motivo principale dei capricci di un bambino che non vuole andare all’asilo o al nido non è altro che la paura dell’abbandono da parte dei genitori, cioè l’angoscia di poter essere separati dalla mamma o dal papà.

Si tratta di una sofferenza comune che nasce da un timore tipico della crescita dai sei mesi fino ai 5-6 anni di età. Questi timori si manifestano, in particolare, nei confronti della principale figura di riferimento, la mamma, con cui i bambini hanno avuto, nei primi mesi di vita, un legame di completa dipendenza.

Il distacco dalla mamma deve avvenire in maniera lenta e graduale, proprio perché nei primi anni di vita la madre è stata l’intero mondo del bambino. Sarebbe bene magari abituare il piccolo a stare qualche ora senza i genitori, magari in compagnia di un parente, con altri bambini, giusto il tempo di fargli sperimentare che l’allontanamento del genitore non implica l’abbandono. Il bambino deve capire che quando la mamma o il papà vanno via tornano.

Con il passare del tempo i bambini inizieranno ad interagire con l’ambiente esterno attraverso l’esplorazione, il gioco e la socializzazione. Successivamente, frequentando il nido o l’asilo, inizieranno il percorso che li porta all’indipendenza. Durante questa fase, quindi, i bambini cercano sempre la mamma e la famiglia come fonti di affetto, stabilità e accudimento e non vorrebbero staccarsene mai.

Il primo giorno al nido o all’asilo o la nascita di un fratellino di cui si è gelosi o l’essere stati sgridati o messi in castigo dall’educatrice o l’aver litigato con un amichetto possono enfatizzare il bisogno di sicurezza dato dalla mamma, provocando un rifiuto verso la struttura, gli educatori e i compagni.

L’insegnante dal suo canto, dovrebbe anch’essa rassicurare il bambino, ma non sminuendo i suoi timori, bensì facendogli notare che gli stessi suoi disagi sono condivisi anche dai coetanei, dimostrandogli anche quindi la normalità e la ricorrenza in tutti i bambini di queste paure. Dovrebbe poi mettere a disposizione del bambino, oltre che uno spazio fisico dove egli possa essere contenuto, anche uno spazio mentale, accogliendo i pensieri del piccolo e condividendo con lui tutto ciò che concerne l’avventura scolastica e la socializzazione con i bambini.