Gli effetti della meditazione

In ambito clinico, accanto alle terapie convenzionali, oggi più che mai si stanno affiancando da un lato le terapie complementari, dall’altro quelle alternative.
La meditazione rientra proprio nelle terapie complementari, pratiche finalizzate alla prevenzione, al trattamento delle malattie o alla promozione della salute. La meditazione può essere definita come uno stato di puro benessere, di consapevolezza, di osservazione e di attenzione. È una condizione non tanto da raggiungere, quanto da riconoscere; una condizione mentale di quiete, di unità. Si basa su un’osservazione silente, senza filtri, priva di pregiudizi. La sua pratica non resta circoscritta a momento specifico della meditazione, ma si estende al resto dell’esistenza quotidiana al punto da favorire un profondo mutamento del proprio essere nel mondo. Mediante la meditazione il soggetto viene invitato a focalizzarsi sulla respirazione anche per favorire la concentrazione. Esistono vari tipi di meditazione, ognuna con caratteristiche specifiche, modi di azione a livello fisico, psichico e psicologico. Esse sono accomunate dal fatto di comportare un addestramento volontario da parte della persona della propria attenzione e consapevolezza. Gradualmente, nel tempo, la meditazione è stata impiegata anche in ambito clinico. In questo senso, non solo offre una possibilità per ridurre le sofferenze , ma rappresenta un modo per rafforzare anche l’autostima del paziente. Questa attenzione per la meditazione si inserisce in un contesto in cui si sta passando da un modello biomedico a un modello biopsicosociale in cui l’individuo viene considerato in senso olistico, come unità di corpo e mente e su cui influiscono anche i fattori del contesto sociale in cui vive.
Ricerche asseriscono che la meditazione è in grado di ridurre indurre vere e proprie modifiche a livello neurocerebrale andando a modulare la corteccia cerebrale. La pratica della meditazione è in grado di favorire l’esecuzione di compiti mnemonici, favorisce inoltre il ricordo libero degli eventi.
La meditazione può ridurre i rischi cardiaci e i rischi di altri disturbi cronici (pressione sanguigna, stress psicologico ecc.). Essa può anche fungere da supporto in un approccio psicoterapeutico.

La pratica costante della meditazione è anche in grado di rafforzare il sistema immunitario nelle persone sane in un ambiente lavorativo e di accentuare i vissuti emotivi positivi. Essa favorisce le quiete mentale, il senso di gratitudine e la riduzione delle preoccupazioni.

Insegnanti e burnout

La figura dell’insegnante ha da sempre ricoperto un ruolo di particolare importanza sia per l’insegnamento, in quanto tale, sia per il ruolo educativo.

Nel corso degli anni la scuola è stata, ed è ancora oggi, protagonista di molteplici cambiamenti alcuni anche incomprensibili.

Ovviamente quando si parla di benessere degli studenti non si può non fare riferimento anche al benessere dei docenti, condizione indispensabile per un effettivo coinvolgimento dei giovani in formazione nel loro personale percorso di crescita culturale e umana.

L’insegnate, che opera nell’ambito delle istituzioni educative, è un “lavoratore della conoscenza”, appartenente ad uno specifico progetto educativo. Svolgono un importante ruolo in cui l’educazione viene considerata come un processo continuo volto a promuovere l’autonomia e la consapevolezza nelle scelte legate alla salute e al benessere e si basa proprio sul protagonismo dei docenti che trasmettono tali parametri.

Soprattutto oggi il compito primario della scuola mira a prevenire, combattere il disagio, la demotivazione, la dispersione scolastica, la devianza per consentire agli studenti livelli il più possibile elevati di benessere psicofisico, di motivazione ad apprendere. Quotidianamente, attraverso la scuola, gli alunni hanno la possibilità di cogliere straordinarie opportunità: crescita intellettuale, acquisizione di responsabilità, maturazione; ma allo stesso tempo si misurano anche con le difficoltà, gli errori, la fatica. Di fondamentale importanza sono le relazioni, il clima scolastico che possono influenzare la qualità di vita dello studente.

Nelle società post-industriali, e soprattutto nei contesti urbani, l’organizzazione della vita si è profondamente modificata rispetto al passato. La quantità di mansioni e compiti che è necessario assolvere quotidianamente continua ad incrementarsi. Lo sviluppo tecnologico ha favorito l’accelerazione delle comunicazioni, ma ciò implica anche maggiori aspettative in termini di rapidità ed efficienza delle prestazioni.

Le ricerche su stress e burnout lavorativi sono in aumento, e non senza ragione. La sindrome da burnout (o più semplicemente burnout) è l’esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che esercitano professioni , qualora queste non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro li porta ad assumere. Numerosi studi hanno mostrato in particolare come tra le categorie professionali particolarmente esposte a burnout vi siano gli insegnanti, a qualsiasi ordine di scuola appartengano (Byrne, 1991; Guglielmi e Tatrow, 1998). Lo stress da lavoro esprime il disagio di chi, dopo aver investito molto in un’attività lavorativa, si sente demotivato, scoraggiato, incapace di agire, privo di entusiasmo, assume un atteggiamento difensivo, prova angoscia e sofferenza fino a perdere l’efficienza sul piano professionale.

L’insegnante è chiamato a svolgere molteplici ruoli all’interno dell’organizzazione scolastica. È possibile far rientrare il lavoro dell’insegnamento tra le professioni di aiuto per gli altri. Insegnare significa dedicarsi alla crescita intellettiva, sociale, educativa e umana dei giovani.

L’insegnante, con il suo bagaglio di personalità, di motivazioni, di obiettivi, di esperienze, di competenze, ecc., è costretto a lavorare in una struttura organizzativa, la scuola, estremamente complessa, con il suo bagaglio di regole, obiettivi e strumenti. A ciò si aggiunga che la scuola, negli ultimi anni, sta subendo una serie interminabile di riforme che dovrebbero ridefinire regole, obiettivi e strumenti. Possiamo immaginare quale possa essere la condizione dell’insegnante nella scuola, a quali stress, frustrazioni, ansie, ma anche a quali gratificazioni e stimoli possa essere sottoposto. Nel corso degli anni il ruolo dell’insegnante ha subito delle modifiche: all’insegnante sono richieste nuove competenze (sociali, psicologiche, relazionali e gestionali) per le quali non solo non ha una formazione adeguata, ma non fanno altro che sovraccaricarlo di lavoro e confonderlo nei ruoli.

Un ruolo fondamentale è svolto dall’opinione pubblica la quale preme sulla scuola affinché diventi capace di rispondere alle richieste del mondo del lavoro, vuole insegnanti sempre più qualificati. Alle eccessive pressioni esterne, cui è soggetto l’insegnante, un ulteriore fattore di stress è la difficoltà relazionale. L’insegnante deve, prima di tutto, saper comunicare e relazionarsi con gli studenti e con le loro famiglie, ma anche con i colleghi, con i superiori e con tutte quelle figure professionali che sono in stretto contatto con il mondo della scuola.

La categoria degli insegnanti è sottoposta a numerosi stress di tipo professionale. L’origine dello stress può essere ricondotta ad alcuni fattori riguardanti: la particolarità della professione; la trasformazione della società verso uno stile di vita sempre più multietnico e multiculturale; il continuo evolversi della percezione dei valori sociali; l’evoluzione scientifica; il susseguirsi continuo di riforme; la maggior partecipazione degli studenti alle decisioni e conseguente livellamento dei ruoli con i docenti. Altre cause che portano alla sindrome del burnout negli insegnanti possono essere:

Rapporto con studenti / genitori
Classi numerose
Conflittualità tra colleghi
Costante necessità di aggiornamenti
Problemi adolescenziali
Retribuzione insoddisfacente
Scarso riconoscimento sociale della professione
Preparazione pedagogica inadeguata.

Nonostante la molteplicità di fattori scatenanti il burnout, l’individuo, in questo caso l’insegnate, possiede delle specifiche abilità di coping che possono contribuire al superamento di tale situazione di malessere. Possiamo distinguere:

– strategie dirette, che mirano ad affrontare la situazione in modo positivo
– strategie diversive, tese a schivare l’evento
– strategie di fuga o di abbandono dell’attività, per sottrarsi alla situazione stressogena
– strategie palliative cioè incentrate sul ricorso a sostanze come caffè, fumo, alcool, farmaci.

La sindrome del burnout appare seria e insidiosa ma può essere combattuta soprattutto se si tengono in considerazione i sintomi che la contraddistinguono. Si rende necessario all’apparire dei primi segnali di stress il ricorrere ad un supporto psicologico o ad un aiuto esterno da parte di esperti. Il burnout può avere gravi ripercussioni sull’agire del singolo individuo, a volte i sintomi che lo compongono possono presentarsi in maniera cronica e duratura.

Linee guida per la gestione delle situazioni di emergenza con i bambini

I comportamenti consigliabili agli adulti nei confronti dei bambini dopo una catastrofe o un evento traumatico possono essere:

– Essere un esempio di calma e controllo. I bambini prendono i suggerimenti emotivi dagli adulti significativi nella loro vita. Evitare di apparire ansiosi o impauriti.

– Rassicurare i bambini che sono al sicuro e lo sono anche gli altri adulti importanti nella loro vita.

– Ricordare loro che la responsabilità del caso è in mano a persone fidate. Spiegare che operatori di emergenza, polizia, dottori e persino l’esercito stanno aiutando le persone che sono ferite e stanno lavorando per assicurare che non si verifichino ulteriori tragedie.

– Fare sapere ai bambini che sentirsi sconvolti è normale. Fare sapere che tutti i sentimenti vanno bene quando avviene una tragedia. Lasciare parlare i bambini dei loro sentimenti e aiutarli a metterli in prospettiva.

– Osservare lo stato emotivo dei bambini. A seconda della loro età è possibile che non esprimano verbalmente le loro preoccupazioni. Cambiamenti nel comportamento, nell’appetito e nel modo di addormentarsi possono indicare un livello di dolore, ansia o disagio.

– Dire ai bambini la verità. Non cercare di fare finta che gli eventi non siano accaduti o che non siano gravi. I bambini sono scaltri. Essi si preoccuperanno di più se ritengono che siete troppo spaventati per dir loro ciò che è accaduto.

– Attenersi ai fatti. Non alleggerire o far congetture su ciò che è accaduto e ciò che potrebbe accadere. Non dilungarsi sulla dimensione o portata della tragedia in particolare con i bambini piccoli.

– Fare in modo che le vostre spiegazioni siano appropriate:

I bambini delle prime classi elementari hanno bisogno di informazioni semplici.

I bambini delle classi elementari superiori e delle prime medie possono aver bisogno di separare la realtà dalla fantasia.

Gli studenti più grandi hanno convinzioni più forti e vogliono aiutare chi è in pericolo.

– Fare in modo che possano esprimere i loro sentimenti di paura ed ansia attraverso ogni canale di comunicazione (parlare, dipingere, scrivere) in modo che il loro malessere sia manifestato

Genitori e figli. Chi comanda?

Nella prassi educativa corrente si sta perdendo di vista il significato del rimprovero. A causa, anche, della visione sempre meno tradizionale della famiglia che si sta cercando di accantonare. Può essere sicuramente vista come qualcosa di positivo, ma non sempre in maniera univoca. Pensate che esercitare il vostro potere di adulti nei confronti dei figli, specie se piccolissimi, sarebbe un abuso?

Ebbene, vi sbagliate. Prendete esempio dai bambini, anche dai primi mesi di vita hanno un’idea ben chiara del potere che hanno e dei metodi a loro disposizione per esercitarlo e, al contrario di voi, non si fanno scrupoli ad usarlo. Proprio questo potere è parte integrante della relazione genitori-figli e imparare a gestirlo diventa fondamentale. Un neonato può esprimere e ottenere ciò che desidera, mostra cioè di possedere la capacità di fare o ottenere qualcosa. Contrariamente alla mamma, però, non ha il potere di prendere decisioni e di metterle in atto. Quella rimane prerogativa del genitore, se ne è in grado, ovviamente.

Non abbiate paura di usare il vostro potere, ma con misura e consapevolezza. È perfino lecito, in un momento di furore, allungare uno sculaccione, ma senza arrivare a questo ci sono molti modi con cui porre limiti al bambino, limiti di cui vi sarà grato perché ne ha bisogno per crescere. Il modo più classico è quello del rimprovero. Il rimprovero è una comunicazione regolativa, non incoraggiante. Deve essere espresso senza enfasi e senza tensione.

Occorre un tono fermo, deciso, autorevole che si esprime in una comunicazione concisa, forte e centrata sui fatti concreti. Al rimprovero deve seguire un breve silenzio, in modo che il messaggio venga assorbito. Ma se da un lato l’educazione di un bambino dipende dalla correzione di comportamenti negativi, dall’altro entrano in gioco aspetti che incoraggiano il comportamento positivo.

Sarà successo anche a voi, da bambini, che vi abbiano detto “sei stato bravo” e di aver provato una sensazione piacevole. Ora, è bene tenere presente che questo è un sentimento che alberga naturalmente nell’animo di un bambino prima ancora che ne afferri il significato logico. Malgrado l’istinto lo spinga a cercare soddisfazione immediata dei suoi impulsi, il bambino desidera comunque accontentare i genitori, vederli sorridere di compiacimento per ciò che ha fatto, felici di lui.

Tuttavia bisogna sapersi contenere, ovvero non cadere nella tentazione di lodarli sempre, minando la loro autostima invece che accrescerla. La lode rischia di trasmettere ai bambini l’idea che siano amati solo quando si comportano in modo consono alle aspettative dei grandi. Può scalfire le motivazioni personali, perché il fare bene una cosa smette di essere un piacere e una soddisfazione di per sé, ma solo un modo per essere apprezzati dall’adulto, col rischio di innescare una sorta di dipendenza dall’approvazione di mamma o papà. Oltre a far sentire i più piccoli sempre sotto giudizio, tanto da renderli insicuri nell’esprimere le proprie idee e scoraggiarli nel mettersi alla prova, perché preoccupati di essere all’altezza della situazione.

Quello del genitore non è, di certo, un lavoro facile, soprattutto se lo si fa per la prima volta. Ma non dovete temere di essere inadeguati, bisogna semplicemente trovare un equilibrio, senza pensarci troppo, in modo naturale e conseguente. E se un giorno vi rendeste conto di aver fatto degli errori, di essere stati troppo severi o, al contrario, troppo transigenti, ricordatevi sempre che nessuno è perfetto, così come non lo eravate voi non lo saranno loro.

E così mentre loro cresceranno imparando dagli errori propri e altrui, voi vi renderete conto che in fondo, i vostri figli, non sono poi così indifesi.

Il conflitto

Il conflitto può essere definito come “una situazione in cui forze, di valore approssimativamente uguale ma dirette in senso opposto, agiscono simultaneamente sull’individuo”; o anche “la reciproca interferenza di reazioni incompatibili.”

Il conflitto può far riferimento alla presenza di tendenze coesistenti rivolte ad almeno due forme differenti di comportamento. È possibile distinguere le tendenze appetitive o attrazione ovvero le tendenze rivolte al raggiungimento di un obiettivo, e le tendenze avversative o avversione ovvero quelle rivolte ad evitare eventi indesiderabili. Tali teorie fanno parte della teoria del campo di Lewin.

La teoria del campo applica al comportamento interpersonale e al concetto di personalità i principi gestaltici della percezione. Il concetto di “campo” è inteso quale totalità di fenomeni psicologici che agiscono in reciproca interdipendenza di influssi; l’individui dunque si colloca al centro di un campo di forza ambientali che li modificano e che, grazie a lui, si modificano. Tale teoria ha trovato applicazione proprio nella psicologia sociale, riuscendo a offrire una fortunata ed esauriente spiegazione sulle dinamiche che intercorrono all’interno di un gruppo.

Per Lewin si ha conflitto quando una persona è costretta a scegliere fra obiettivi o corsi d’azione incompatibili, contraddittori o mutatamene esclusivi cioè quando l’azione necessaria a raggiungere l’uno impedisce automaticamente alla persona di raggiungere l’altro.“Una situazione in cui le forze di valore approssimativamente uguale ma dirette in senso opposto, agiscono simultaneamente sull’individuo” .

Secondo la teoria del campo si prospettano 4 possibilità di conflitto:

  • Conflitto fra due tendenze appetitive in cui il soggetto di fronte a due obiettivi raggiungibili deve necessariamente sceglierne uno scartando l’altro. Non viene considerato un vero e proprio conflitto, ma piuttosto una condizione di scelta.
  • Conflitto fra una tendenza appetitiva e una tendenza avversativa in cui si contrappongono desideri razionali e ostacoli emotivi quindi alcuni elementi spingono in una direzione e altri in quella opposta. Le decisioni risultano difficili poiché si innesca un meccanismo di attrazione e repulsione con momenti alterni di prevalenza dell’uno rispetto all’altro.
  • Conflitto fra due tendenze avversative in cui il soggetto è posto di fronte a una scelta riguardo due opportunità negative. Si ha la tendenza a scegliere l’opportunità meno scoraggiante.
  • Conflitto composto fra più tendenze appetitive ed avversative(doppia situazione di attrazione – avversione) che si verifica in molte situazioni della vita di tutti i giorni, è il caso in cui oggetti o situazioni evocano contemporaneamente situazioni di avversione e attrazione. Una classica situazione è quella in cui ad un individuo che svolge una determinata attività professionale viene proposta un’altra attività. Entrambe le professioni hanno caratteristiche sia attraenti che negative, se le caratteristiche attraenti o quelle repellenti di ciascun lavoro sono uguali vi sarà una situazione di conflitto.

Spesso a suscitare il conflitto non è un oggetto o un’attività, quanto un modello di comportamento, che si sintetizza, in questo caso, nel concetto di “ruolo”.

Il conflitto nasce quando un individuo viene ad occupare, simultaneamente, due posizioni differenti, che prescrivono atteggiamenti diversi, oppure quando le attese di persone o gruppi diversi, relativi ad una stessa posizione, discordano nettamente.

L’adolescenza è l’es. tipico di conflitto, in quanto il soggetto è già uscito dall’infanzia e non ha ancora raggiunto l’età adulta, si sente attirato dall’idea di essere un adulto indipendente e carico di prestigio, ma anche dal desiderio di restare legato al ruolo del bambino, protetto e sicuro.

Se una persona appartiene allo stesso tempo a due gruppi sociali diversi della stessa categoria (età, nazionalità, razza), gli si presenteranno, in ogni situazione, due tipi diversi di comportamento suggeriti da ognuno dei due gruppi ed il soggetto di troverà in una situazione permanente di conflitto. Questa situazione può essere grave perché non si tratta di un conflitto casuale e passeggero, ma costante per l’individuo, il quale ha interiorizzato due serie di ruoli paralleli per ogni situazione; oppure perché entrambi questi gruppi, di cui fa parte, hanno una grande influenza sulla formazione della personalità.

Ci sono varie possibilità di uscire da questo conflitto:

  • con un’intensa valorizzazione della cultura d’origine, che si manifesta con nazionalismo e rifiuto di ogni nuovo ruolo, dovuto spesso ad un’incapacità di adattamento al nuovo gruppo;
  • con l’assunzione di un ruolo intermedio che permetta di conciliare le due culture;
  • con un buon adattamento alla nuova cultura che va di pari passo con il rifiuto del gruppo d’origine.

L’individuo si perderebbe tra questi conflitti se non avesse, a sua disposizione, dei meccanismi adeguati che gli permettano di risolverli.

A livello personale operano numerosi meccanismi:

  • la separazione, che consiste nel tentare di separare, sia nel tempo sia nello spazio, i due ruoli in conflitto, ad es. evitando la sovrapposizione dei ruoli, assumendoli nel tempo e negli spazi separati, il conflitto viene risolto distaccandosi da un ruolo ritenuto riprovevole, quello ritenuto meno importante, ma questa decisione di mettere da parte un ruolo si rivela dannosa per l’individuo, potendo generare dei forti sentimenti di frustrazione;
  • il compromesso, consistente nel rimandare l’azione ed attendere che uno dei due gruppi o entrambi attenuino le loro esigenze, oppure ristrutturare il ruolo stesso al fine di adattare questa nuova definizione ad ognuno dei due gruppi, infine un’altra strategia è quella di utilizzare un ruolo contro l’altro, indicando ad ogni gruppo le esigenze incompatibili che gli vengono imposte dall’altro in modo da spingere le due parti ad attenuare le proprie richieste;
  • la fuga, consistente nell’uscita del soggetto da entrambi i ruoli, come la fuga dal campo, in cui l’individuo va in un altro ambiente sociale e si allontana dai gruppi che generano conflitto, la fuga nella malattia, che avviene inconsciamente

Molti psicologi sociali ritengono che le persone abbiano un bisogno fondamentale di congruenza cognitiva, ovvero di coerenza logica tra le proprie convinzioni ed idee. Secondo Festinger (1957) quando un individuo ha due rappresentazioni cognitive (idee sul mondo) coerenti l’una con l’altra, egli si trova in uno stato interno di equilibrio, che l’autore chiama di consonanza.

Quando invece due o più rappresentazioni cognitive non sono tra loro coerenti, perché una implica l’opposto dell’altra, si produce dissonanza. Festinger sosteneva che esiste una motivazione fondamentale che spinge l’individuo a ridurre gli stati di dissonanza, che sarebbero per natura destabilizzanti.

Più la rappresentazione cognitiva è importante e più la dissonanza è destabilizzante. E più è critica la dissonanza più è forte la motivazione dell’individuo a ridurla. Quello della dissonanza cognitiva è uno dei concetti elaborato da Festinger definendola come la condizione di individui le cui credenze, nozioni, opinioni contrastano tra loro (dissonanza per “incoerenze logica”), o con le tendenze del comportamento (“dissonanza per “l’esperienza passata”), o con l’ambiente in cui l’individuo si trova ad operare (dissonanza per “costumi culturali”).

Bullismo e baby gang: strategie di prevenzione nelle scuole

Si manifestano nella scuola un numero crescente di comportamenti di aggressione con diverse modalità di espressione della violenza e differenti livelli di consapevolezza del fenomeno. Fenomeni preoccupanti, che investono i giovani nelle loro dinamiche personali e nella loro relazione con i compagni e con gli adulti docenti/genitori. Le cronache giudiziarie inducono a temere l’estendersi di una violenza più o meno “strisciante” nei confronti dei compagni e anche dei docenti nell’ambiente scolastico, fino ad arrivare a veri e propri casi di devianza delinquenziale.

Il termine “bullismo”, oggi largamente impiegato per definire i vari comportamenti di sopraffazione, soprattutto nell’ambito giovanile e adolescenziale, deriva da quello anglosassone bulling e sta ad indicare una specifica modalità di relazione tra due persone: “un soggetto più forte che si avvale della propria superiorità fisica per danneggiare un soggetto più debole”.
Il bullismo, quindi, indica un fenomeno complesso che include non solo il comportamento del persecutore, ma anche quello del perseguitato.

Le caratteristiche del bullismo possono essere così definite: il bullo prova soddisfazione nel far soffrire, fisicamente e psicologicamente, il suo bersaglio umano, anche se questo mostra chiaramente il suo profondo disagio o addirittura dolore fisico e interiore; il comportamento del bullo si protrae nel tempo e anche per questa ragione induce la sua vittima a vivere l’ambiente, spesso quello scolastico, come un luogo insicuro ed ostile. In genere il persecutore utilizza la sua maggiore età o la sua prestanza fisica come arma per farsi temere e, quindi, per rendere la vittima docile al comando; la vittima è un soggetto ipersensibile e si percepisce come vulnerabile ed impotente di fronte al suo persecutore, subendone passivamente e progressivamente le angherie più efferate; la vittima ha paura, inoltre, di raccontare quello che subisce perché teme ritorsioni e teme di non essere creduto; scivola così giorno dopo giorno nel buio della totale disistima verso se stesso, incapace di tagliare i lacci psicologici della sottomissione che ha ormai interiorizzato.

Non è sempre facile, però, riconoscere il bullismo. Se un compagno di classe attacca fisicamente e ripetutamente nel tempo la vittima o la insulta pesantemente e reiteratamente tanto da emarginarla, non possiamo certo credere che si tratti della normale conflittualità tra coetanei. In altri casi, invece, il confine è meno palese: il bullo, per costruire il suo distruttivo passatempo, può utilizzare strategie meno teatrali, ma ugualmente efficaci sottraendo o rovinando, per esempio, gli oggetti del perseguitato, diffondendo pettegolezzi o storie offensive nel suo conto con il preciso scopo di emarginarlo dal gruppo.

Le scuole elementari e le medie sono il regno più fecondo per questo fenomeno. Dalle ricerche effettuate si evince che il numero di bambini italiani coinvolti dal fenomeno è doppio rispetto ai loro coetanei europei. Se, infatti, si riscontra il 6% di bullismo in Finlandia, il 15% in Norvegia, il 12,5% in Giappone, il 20% in Canada, l’1,8% in Irlanda e il 15% in Spagna, nel nostro Paese la percentuale sale vertiginosamente: il 41% dei casi nelle scuole elementari, il 26% in quelle medie; in entrambi i contesti scolastici i maschi sono in gran parte responsabili del bullismo ai danno delle femmine (più del 60%), mentre la maggioranza dei maschi è stata perseguitata principalmente da coetanei dello stesso sesso (80%). In alcuni specifici contesti socio-culturali e le percentuali aumentano notevolmente. Nelle scuole elementari il 57,2% delle prepotenze fisiche e verbali avviene in classe o nei cortili dedicati alla ricreazione, nelle medie la percentuale si abbassa al 51,9%.

Il bullismo può essere messo in atto da un singolo individuo o da un gruppo (baby gang), e anche il bersaglio può essere un singolo individuo o un gruppo.

In Italia il problema dei gruppi adolescenti devianti è oggi particolarmente diffuso: basti pensare che nel 2000, secondo i dati dell’Osservatorio del mondo giovanile – Città di Torino, ben il 68,2% dei reati compiuti da minori è stato commesso insieme ad altri ragazzi. I reati attuati da gruppi di minorenni sono soprattutto il furto e il vandalismo, mentre quelli compiuti da minorenni in concorso con maggiorenni sono decisamente più gravi: rapina e spaccio di stupefacenti.
Abbastanza frequenti sono anche le denunce per reati contro l’ordine pubblico, commessi da gruppi di ragazzi. Anche i mass media parlano sempre più di baby gang quando riportano episodi di furti ed aggressioni attutati da gruppetti di adolescenti a danno dei loro coetanei.

Se si analizzano le caratteristiche di questi gruppi giovanili si scopre facilmente che, in realtà, non si tratta di bande. Infatti sono privi delle caratteristiche tipiche di una gang, come ad esempio una struttura gerarchica definita, regole di condotta, una buona coesione tra i membri ed il controllo del territorio. Quindi, anche se tra i giovani italiani la devianza del gruppo è molto frequente, non si può parlare, però, di vere e proprie gangs. Così come sono presenti in altri paesi come negli Stati Uniti. Il bullismo o il riunirsi di adolescenti in baby gang è, pertanto, la risultante di un insieme di azioni che spesso sono persistenti e mirano deliberatamente a fare del male e/o a danneggiare che ne rimane vittima.

Alcune azioni offensive avvengono attraverso l’uso delle parole, per esempio minacciando od ingiuriando; altre possono essere commesse ricorrendo alla forza o al contatto fisico: schiaffi, pugni, calci o spinte. In altri casi le azioni offensive possono essere condotte beffeggiando pesantemente qualcuno, escludendolo intenzionalmente dal proprio gruppo.

Per poter parlare di bullismo, o di baby gang, è necessario che vi sia un’asimmetria nella relazione.

Il bullismo può essere:

-diretto, quando si manifesta con attacchi relativamente aperti nei confronti della vittima;
-indiretto, quando si manifesta come una forma di isolamento sociale e una intenzionale esclusione del gruppo.

Gli atti di bullismo si manifestano con maggiore frequenza all’interno della scuola. Le sopraffazioni avvengono tra l’indifferenza dei coetanei e degli insegnanti, come se le percosse, gli insulti, i furti e le minacce fossero una normale componente del clima scolastico e come se la violenza fosse motivo di compiacimento.

Bullismo a scuola significa, quindi, colpi proibiti, taglieggiamenti, offese pesanti, soprusi individuali e raid di gruppo. Oltre a ciò è frequente l’isolamento fisico, la crudeltà psicologica.

Molte prepotenze sono individuali, mentre altre fanno parte di rituali di gruppo ma in ogni caso sottili legami si creano tra persecutori e vittime.

La personalità del “bullo”

La caratteristica più evidente del comportamento da bullo è chiaramente l’aggressività, rivolta verso i coetanei, ma anche verso i genitori e gli insegnanti.

I bulli hanno un forte bisogno di dominare gli altri e si dimostrano spesso impulsivi. Vantano spesso la loro superiorità, vera o presunta, arrabbiandosi facilmente e presentano una bassa tolleranza alla frustrazione. Manifestano, inoltre, grosse difficoltà nel rispettare le regole. Numerosi studi hanno evidenziato i fattori che sembrano essere alla base del comportamento aggressivo, quali:
il temperamento del bambino; la mancanza di calore e di coinvolgimento da parte delle persone che si prendono cura del bambino in tenera età; l’eccessiva permissività e tolleranza verso l’aggressività manifestata sin dalla più tenera età; il modello genitoriale all’interno della famiglia nella gestione del potere; l’uso eccessivo nella famiglia di punizioni fisiche come strumento per far rispettare le regole.

I bulli, per questo motivo, sviluppano un atteggiamento verso l’utilizzo di comportamenti violenti per raggiungere i propri scopi e mostrano una sovrastima di se stessi.

La personalità della vittima

Le vittime sono spesso ansiose ed insicure, hanno una scarsa autostima ed un’opinione negativa di sé e della propria situazione. Infatti manifestano particolari preoccupazioni riguardo al proprio corpo: hanno paura di farsi male, sono incapaci nelle attività di gioco o sportive, sono abitualmente non aggressivi e non prendono in giro i compagni, ma hanno difficoltà ad affermare se stessi nel gruppo dei coetanei.

Le vittime sono caratterizzate da un modello reattivo ansioso o sottomesso, associato ad una debolezza fisica, soprattutto se maschi, perché sembrano non possedere le abilità per affrontare la situazione o, nel caso in cui le possiedano, le utilizzano in maniera inefficace.

Le vittime possono essere passive o sottomesse, segnalano agli altri l’insicurezza, l’incapacità, l’impossibilità o la difficoltà di reagire di fronte agli insulti ricevuti; esse possono presentare una combinazione di modalità di reazioni ansiose che provocano una modalità combinata di risposte a loro volta aggressive.

Il modello del persecutore e quello della vittima rappresentano due modalità inadeguate, apprese dall’ambiente, di rapportarsi con gli altri.

Entrambi determinano effetti apparentemente adattivi nel breve periodo e per questo si rinforzano, ma a lungo termine producono disagio a se stessi e all’ambiente che li circonda. È importante intervenire precocemente sui giovani che presentano tali comportamenti, in quanto su queste basi si possono instaurare nel tempo veri e propri disturbi psicologici.

Il modello reattivo-ansioso (tipico della vittima) conduce ad evitare le situazioni che si considerino potenzialmente pericolose. Questo può creare un terreno fertile sul quale si possono sviluppare disturbi come fobie, depressioni, ecc.

Il modello reattivo-aggressivo (tipico del bullo) può creare una base sulla quale possono innestarsi disturbi quali atteggiamenti di devianza, comportamenti delinquenziali e comportamenti di dipendenza da alcool, droga, ecc.

Anche laddove non si manifestano vere e proprie patologie, i giovani che utilizzano modelli di comportamento reattivi inadeguati strutturano delle personalità che non sono in grado di adeguarsi in maniera coerente e proficua alle richieste dell’ambiente. Una personalità aggressiva svilupperà una modalità attraverso la quale cercherà di imporsi sempre sugli altri, vivendo le relazioni in una ricerca costante e crescente di conflittualità.

Queste particolari situazioni, se vissute per lungo tempo, possono portare i giovani a rimanere isolati dagli altri a causa dei loro comportamenti inadeguati, siano essi vittime o bulli.

In questa prospettiva è importante agire in maniera sollecita e adeguata nell’ambiente scolastico, cercando di far emergere i problemi che sempre più frequentemente portano i giovani a vivere queste situazioni di esclusione e isolamento; o, di riflesso, per paura, ad unirsi al gruppo dei bulli, costituendo, a volte anche senza rendersene conto, piccole gang giovanili.

L’intervento deve coinvolgere non solo i giovani, ma anche e soprattutto gli insegnanti e i genitori, fornendo loro adeguati strumenti per poter far emergere il fenomeno, saperlo definire, contenere, superare, condividendolo.

Uno degli strumenti a cui si è dato corso è stato elaborato dagli autori per portare nelle scuole un Quaderno di prevenzione su bullismo e baby gang. Il Quaderno di AXI (Magi Editore) e permette nel suo utilizzo di comprendere il fenomeno e dà informazioni semplici ma esaustive sulle personalità e i comportamenti dell’aggressore “bullo”, la vittima e le dinamiche del contesto scolastico. Il Quaderno si avvale di vignette che illustrano e spiegano i diversi concetti e le dinamiche del bullismo. Per esempio si spiega cos’è il bullismo, si fanno conoscere le sue manifestazioni, si indica che cosa fare per porre fine al circolo vizioso. Il libro è stato concepito per essere utilizzato, oltre che direttamente con gli alunni, anche con gli insegnanti e i genitori.

Conoscendo il problema si può, quindi, attivare nelle scuole una programmazione contro le prepotenze e promuovere interventi tesi a costruire una cultura del rispetto e della solidarietà tra gli alunni e tra alunni ed insegnanti.

Un intervento preventivo è rivolto a tutti gli alunni e non direttamente ai “bulli” e alle loro vittime. Per un cambiamento stabile e duraturo, è più efficace agire su tutta la comunità scolastica per promuovere nuove regole di convivenza, piuttosto che agire sul disturbo ormai conclamato.

Una delle principali cause delle frustrazioni alle origini dell’aggressione e degli atteggiamenti ostili nella scuola è il concetto della disuguaglianza che resta ancora alta e motivo di emarginazione. Questa disuguaglianza vissuta come ingiustizia costituisce una delle cause prioritarie delle frustrazioni scolastiche. Disuguaglianza che emerge in maniera molto evidente, non solo da un punto di vista estetico-economico (il ritorno a un grembiule uguale per tutti o a una divisa scolastica così come d’uso nei paesi anglosassoni risolverebbe tutte queste occasioni di tensione e di esclusione), ma è anche data dalla sempre maggior presenza di figli di stranieri e di emigrati nel nostro contesto sociale. Inoltre, a volte, anche i comportamenti degli insegnanti possono adottare inconsapevolmente modalità educative ‘aggressive’ che provocano danni psicologici o sofferenze negli studenti.

È importante sottolineare questo punto perché, come indicato in letteratura, è inefficace l’intervento psicologico individuale ma risulta necessario un interventi mirato sul contesto. Infatti il “bullo” non è motivato al cambiamento in quanto le sue azioni non sono percepite da lui come un problema, ma queste sono un problema soltanto per la vittima, gli insegnanti e il contesto in cui egli agisce. L’intervento diretto sulla vittima, pur efficace a fini individuali, non lo è per quanto riguarda la riduzione del fenomeno del “bullismo”: anche se quella vittima cesserà di essere tale il bullo ne cercherà presto un’altra nel medesimo contesto. Per questi ed altri motivi è necessario ed urgente, visto l’ampliarsi del fenomeno, attuare un programma di intervento di carattere preventivo e diretto al contesto “gruppo classe/scuola/genitori” ed è per questo che trova significato un intervento strutturato.

L’intervento deve essere strutturato per le seguenti finalità:

1. Acquisire consapevolezza

E’ possibile trattare e capire alcuni concetti strettamente legati alla comprensione dei fenomeni di violenza e bullismo (potere, oppressione, pregiudizio). Le storie possono fornire un importante contributo per capire le diverse forme di abuso di potere. In questi casi lo stimolo dato dal racconto diventa l’occasione per sollecitare una prima riflessione sul problema e per riportare poi la discussione a livello personale. Lo scopo è quello di favorire un’acquisizione di consapevolezza del problema, delle motivazioni che ne sono alla base e delle conseguenze che può generare.

2. Responsabilizzare i ragazzi

Gli alunni, elaborando le loro soluzioni, hanno modo di approfondire la natura del problema e vengono rafforzati i valori e gli atteggiamenti contro gli abusi e le prepotenze, attivando le capacità di analisi e di risoluzione da parte dei diretti interessati per realizzare interventi specifici contro il fenomeno; con il coinvolgimento attivo dei ragazzi nella risoluzione del problema, imparando a conoscere i persecutori e le vittime, i luoghi e i tempi.

3. Favorire l’interiorizzazione delle regole di buona convivenza scolastica

L’intervento permette un lavoro di coinvolgimento e sensibilizzazione di tutte le componenti della scuola: collegio docenti, insegnanti, genitori e alunni, favorendo l’attenzione alle dinamiche relazionali interne alla scuola e, conseguentemente, ad una buona convivenza scolastica mantenendo alto un senso condiviso di responsabilità.

4. Costruire solidarietà

Si fornisce supporto tra coetanei poiché dà una risposta all’esigenza di combattere la violenza e la sopraffazione e promuovere il rispetto e l’aiuto reciproco. Si andrà così ad acquisire la competenza dell’ascolto e del sostegno alla crescita e alla maturazione dei ragazzi. Questa competenza risulta un mezzo efficace per favorire la consapevolezza di sé, l’autostima, lo sviluppo della capacità di aiuto e di comprensione verso gli altri. Un’occasione di crescita per il gruppo classe stesso poiché, attraverso un maggiore dialogo ed una maggiore consapevolezza di pensieri, emozioni ed azioni, può diventare risorsa e sostegno per ciascun membro della scuola.

È inutile sottolineare che per rendere efficace e duraturo questo tipo di prevenzione è necessario che gli insegnanti, gli educatori e le famiglie collaborino, come modelli e come soggetti promotori di modalità adeguate di interazione, affinché l’esempio possa essere imitato, acquisito e diventare quindi uno stile di vita per i ragazzi.

Questa consapevolezza, responsabilità e solidarietà deve servire, inoltre, a far capire come la scuola rappresenti uno dei migliori contesti d’intervento per quello che riguarda la possibile educazione e sviluppo della persona per una migliore società futura.

fonte: “Link. Rivista scientifica di psicologia”

Il Disturbo di Panico

Il Disturbo di Panico è caratterizzato dal ricorrere di stati d’ansia acuti, ad insorgenza improvvisa, cioè in assenza di fattori scatenanti immediatamente evidenti, e di breve durata, da pochi secondi ad alcuni minuti fino ad un massimo di mezz’ora, un’ora.

L’esperienza del panico si accompagna generalmente a senso di impotenza, mancanza di controllo, paura, sentimento di minaccia per la propria integrità fisica e psichica, sentimenti di morte imminente ed è spesso seguita da astenia, sensazione di “testa confusa”. Ogni attacco può provocare una preoccupazione sempre maggiore, chiamata ansia anticipatoria, che può aumentare fino a colmare le ore o le giornate che separano un attacco da un altro.

Il panico è aumentato vertiginosamente e, in particolare, il numero di donne che ne soffre. Oggi, in Italia è un problema comune a circa un milione e ottocentomila persone, di cui un milione e duecentomila sono donne tra i 25 e i 40 anni.

Al primo posto fra le cause troviamo l’aumento dello stress psicosociale in ogni ambito della vita, sia pubblico che privato. La struttura sociale della vita è più complessa; ciascuno di noi inevitabilmente è esposto ad un sistema più competitivo e conflittuale. La realtà, inoltre, è cambiata e continua a cambiare sotto il nostro naso troppo velocemente, senza darci il tempo di trovare solidi punti di riferimento interiori che ci consentano di affrontare tali cambiamenti.

L’odierna realtà familiare, sempre più contraddistinta da divisioni e tensioni, non fa che complicare le cose. Altro aspetto importante è la definizione della personalità e il rapporto con le emozioni, aspetti che devono permettere di costruire processi di differenziazione e integrazione del Sé. Secondo le teorie recenti, il Sé costituisce il principio integrativo che consente un vissuto permanente ed unitario della propria persona e che permette all’individuo di attraversare i cambiamenti del tempo, nello spazio e nei ruoli.

Di fondamentale importanza risulta, pertanto, la capacità di gestire stress psicosociale e attacchi di panico per potervi rispondere in maniera adeguata, nonché la capacità di chiedere aiuto rivolgendosi ad un professionista nel settore in grado di sostenere l’individuo durante il percorso di apprendimento di tale capacità.

Disturbi del comportamento alimentare (DCA)

La “normalità” nell’atto del mangiare e nel modo di alimentarsi è costituita da una notevole varietà di “tipologie alimentari” che si manifestano a partire dall’infanzia, passando per l’adolescenza fino all’età adulta; la maggior parte di queste non costituiscono un disturbo alimentare ma solo alcuni tipi di alimentazione divengono e sono realmente problematici, poiché espressione di un disturbo psicopatologico vero e proprio.

Ciò che accomuna tutti i DCA è un’alterazione dell’immagine corporea, alterazione che può manifestarsi con carattere e gravità diversi fino ad un vero e proprio disturbo delirante del pensiero. L’immagine corporea coinvolge la nostra percezione, l’immaginazione, le emozioni e le sensazioni fisiche riguardo al nostro corpo. È una condizione sensibile ai mutamenti psicologici, alle esperienze corporee e all’ambiente fisico ed emotivo che ci circonda.

I disturbi alimentari principali sono l’Anoressia Nervosa e la Bulimia Nervosa.

Con Anoressia Nervosa (AN) si intende una patologia molto grave che si manifesta per lo più nel mondo adolescenziale. Anoressia vuol significare perdita o diminuzione dell’appetito. Ciò che più caratterizza l’AN sul piano diagnostico, in realtà, è una ricerca spasmodica della magrezza in rapporto ad una opprimente paura di ingrassare.

L’anoressia è spesso associata ad altri disturbi alimentari, quali la bulimia e i comportamenti compulsivi. L’anoressia mentale dell’adolescente si configura nell’associazione con la crisi, o turmoil emotivo,che emerge in questa fase della vita sia in relazione all’accettazione dei cambiamenti del proprio corpo, vissuto come ingombrante e senza controllo, sia in rapporto alla conflittualità delle relazioni affettive con i genitori. Le persone che soffrono di anoressia vanno alla ricerca di una magrezza mai sufficiente. Forte è il legame con tratti della personalità di tipo narcisistico, dove il corpo e il cibo si caricano di valenze magiche e immaginarie. Attraverso il cibo e il controllo esercitato sul corpo, si cerca di controllare in modo “magico” tutto il mondo interno ed esterno, sentito e vissuto come difficile e ostile.

Con Bulimia Nervosa (BN) si intende una patologia molto grave, che si distingue dall’AN per la presenza di abbuffate e comportamenti compensatori, quali diuretici, lassativi, vomito autoindotto, esercizio fisico, a fronte di un peso relativamente normale.

Si tratta di un impulso irresistibile verso il cibo, a cui il soggetto risponde assumendone in modo vorace una grande quantità in breve tempo. Di frequente, dopo l’abbuffata si presentano disturbi dell’umore, in particolare depressione, sentimenti di colpa e autosvalutazione. Oggi la bulimia sembra essere un problema sempre più comune. Il rischio ha una percentuale molto elevata su una fascia di età molto più estesa rispetto al passato, colpendo tuttavia soprattutto gli adolescenti e le donne. In ambito psichiatrico si è constatata la frequente associazione tra bulimia e stati depressivi e/o ansiosi, per cui il cibo diventa capace di riempire il vuoto esistenziale o di placare in qualche modo l’angoscia di vivere. Il cibo, per chi soffre di bulimia nervosa, rappresenta un modo per compensare le frustrazioni, la solitudine, la delusione. Le relazioni affettive e sessuali sono vissute come qualcosa di intimamente collegato al cibo ed è attraverso il cibo che si cerca di gestire e rispondere alle emozioni da esse scatenate.

Il bullismo

La definizione di bullo in Italia ha un’accezione che stempera la gravità della violenza che vuole denunciare. Il bullo, nel senso comune, è il gradasso, quello che si dà delle arie, ma che non necessariamente prevarica gli altri, anzi spesso il temine bullo o bulletto ha un’accezione positiva, di affettuosa presa in giro.

È però necessario comprendere il problema: il bullo è un ragazzo o una ragazza che compie degli atti di prepotenza verso un proprio pari, prepotenze che non sono occasionali, ma si ripetono nel tempo, configurandosi come una vera e propria persecuzione.

È possibile individuare alcune caratteristiche distintive del bullismo: l’intenzionalità (mira deliberatamente a colpire, offendere, arrecare danno o disagio); la persistenza nel tempo, l’asimmetria di potere ( nella relazione il bullo è più forte e la vittima più debole e spesso incapace di difendersi).

È possibile distinguere due tipologie di bullo:

 

  • il bullo dominante caratterizzato da una aggressività generalizzata sia verso gli adulti sia verso i coetanei, scarsa empatia, impulsività, si arrabbia facilmente, ha un atteggiamento positivo verso la violenza, poiché è ritenuta uno strumento valido per raggiungere i propri obiettivi. Si tratta di bambini sicuri di sé, con elevate abilità sociali, capaci di istigare gli altri. Il bullo, sempre alla ricerca di emozioni forti, deumanizza la vittima al fine di giustificare le sue forme di aggressività e di violenza e stabilisce con gli altri rapporti interpersonali improntati quasi sempre sulla prevaricazione
  • il bullo gregario che è più ansioso, insicuro, poco popolare, cerca la propria identità e l’affermazione nel gruppo attraverso il ruolo di aiutante o sostenitore del bullo

La vittima generalmente ha una scarsa autostima, un’ opinione negativa di sé. Di fronte a un attacco reagiscono chiudendosi in se stessi. Per le vittime si evidenziano deficit nel riconoscimento di specifici segnali emotivi, in particolare relativi alla rabbia.

Essere vittima di bullismo, nel corso del tempo, può rappresentare un fattore di rischio. La vittima può andare incontro a livelli di autostima sempre più bassi, a forme di depressione, autolesionismo e in estremo il suicidio.
Le cause possono essere riconducibili non sono a fattori personali e al contesto culturale ma anche al contesto familiare.

Proprio per quanto riguarda il contesto familiare da molteplici ricerche è emerso che i bambini con uno stile di attaccamento insicuro-evitante esibiscono con più probabilità comportamenti di attacco e prepotenza verso i compagni, mentre i bambini con attaccamento insicuro-resistente assumono con più probabilità il ruolo di vittime.
Il gruppo ha un ruolo molto importante nel fenomeno del bullismo.

Alcuni compagni svolgono un ruolo di rinforzo, altri formano un pubblico che sostiene e incita, altri ancora si disinteressano del tutto, ma ci sono anche altri che invece assumono una posizione protettiva nei confronti della vittima. Il bullismo è una modalità proattiva, è un comportamento messo in atto senza alcuna provocazione da parte della vittima ed è agito dall’aggressore al fine di raggiungere il suo scopo e il potere sugli altri. Il bullo è in grado di affermarsi nel gruppo soltanto attraverso l’uso deliberato della forza.

Il bullismo dunque si configura come un fenomeno collettivo che coinvolge l’intero gruppo, il quale può sostenere e rinforzare il fenomeno.

Un ruolo importante ed educativo può fornirlo la scuola, aiutando il bambino ad avere una buona sicurezza, la quale si rinforza e si costruisce in un contesto relazionale che offre l’opportunità di esprimere se stessi e le proprie capacità. La valorizzazione aiuta il bambino ad avere fiducia in se stesso.

È importante osservare e lavorare il prima possibile su comportamenti aggressivi, intervenire in modo tempestivo in modo da poter modulare ed esplorare tali atti aggressivi.

Ansia e stress: cosa sono e come curarli

Ansia

Per ansia oggi si intende l’anticipazione apprensiva di un pericolo o di un evento negativo futuro, accompagnata da sentimenti di disforia e da sintomi fisici di tensione.

Nella società moderna l’ansia è parte integrante delle nostre vite. Ogni giorno affrontiamo nuovi rischi, pericoli e malattie, per non parlare dei problemi economici che gravano sulle famiglie e sulle nuove generazioni.

In un sistema che si evolve tanto rapidamente le aspettative che gravano sui singoli individui possono essere difficili da gestire, e possono, dunque, provocare ansia.

Tuttavia l’ansia non deve sempre essere considerata come qualcosa di anormale, bensì come un’emozione basilare che attiva l’organismo in risposta ad una situazione che viene soggettivamente percepita come pericolosa.

L’ansia si traduce, dunque, in un’esplorazione dell’ambiente alla ricerca di soluzioni, nonché in una serie di risposte neurovegetative come l’aumento del battito cardiaco, della sudorazione e della frequenza respiratoria. Tali risposte avvengono nel momento in cui l’organismo suppone di aver bisogno del massimo della forza e dell’energia per poter rispondere alla situazione considerata di pericolo. È chiaro, quindi, come l’ansia possa rivelarsi un’importante risorsa.

Diviene invece un disturbo emotivo spiacevole quando lo stato di allarme e paura è “esagerato” rispetto ai reali pericoli o se i pericoli non ci sono affatto. In questo caso l’ansia non è adattiva, ma diventa un problema che può rendere la persona incapace di controllare le proprie emozioni e di affrontare anche le situazioni più semplici. L’ansia è un’emozione che può aumentare a seguito di eventi dolorosi o conflitti. Possiamo cercare di eluderla attraverso i nostri comportamenti, minimizzandola per non esserne sopraffatti. Tuttavia una forte ansia può essere estenuante e provocare sfinimento. L’ansia può, quindi, essere distinta in ansia “buona” e ansia “cattiva”.

L’accezione positiva si riferisce all’ansia come sempre presente, anche se in maniera più o meno sfumata, nella nostra vita quotidiana, che si fa sentire in maniera più o meno lieve per avvertirci che qualcosa non va in svariate situazioni. L’esperienza ansiosa è, quindi, normale e funzionale quando si presenta come una reazione d’allarme diretta contro uno stimolo reale e conosciuto; questo tipo di reazione provoca uno stato di tensione psicologica che attiva le risorse dell’individuo e potenzia le sue capacità operative finalizzate alla risoluzione del problema. Inoltre, una quota d’ansia limitata può essere incanalata in attività socialmente accettate, come attività artistiche, intellettuali e sociali, e rappresentare per l’individuo una fonte di curiosità e anche di creatività.

L’accezione negativa, invece, pone l’enfasi sulla patologia, in particolare nei casi in cui l’individuo non riesce a trovare soluzioni adattive per fronteggiare situazioni sconosciute o potenzialmente pericolose, in quei casi l’ansia può perdere le sue caratteristiche funzionali. Esistono due condizioni in cui l’ansia diventa patologica:

– Quando la risposta ansiosa è esagerata e disfunzionale rispetto agli stimoli che l’hanno indotta e l’individuo ne è consapevole. Lo stato ansioso si manifesta in maniera costante, disturbando il paziente durante tutto l’arco della giornata con i sintomi già descritti, non è gestibile con il ragionamento nonostante la persona riconosca la natura esagerata della sua reazione.

– Quando lo stato ansioso compare in assenza di uno stimolo scatenante. Lo stato ansioso compare in modo acuto ed è caratterizzato da sensazione di soffocamento, sensazione di sbandamento, paura di morire o di perdere il controllo (attacco di panico). Questi fenomeni sono generalmente ricorrenti, di breve durata, e possono essere inattesi e condizionare la vita dell’individuo per questa loro imprevedibilità.

Quando l’ansia diviene patologica, provoca distorsioni cognitive, come idee ossessive, aspettative catastrofiche ed errori di attribuzione e causa la sovrastimolazione del sistema nervoso e degli organi ad esso collegati. Assume inoltre caratteristiche autoinvalidanti, tramite le quali l’individuo perpetua comportamenti disadattivi per lunghi periodi di tempo, spesso giudicati dal soggetto stesso come irrazionali e inadeguati.

Classificazione dei disturbi d’ansia

La categoria dei disturbi d’ansia comprende una varietà di disturbi diversi fra loro. Si possono quindi distinguere due tipi di ansia principali:

– L’ansia di stato è concettualizzata come uno stato emozionale caratterizzato da sentimenti soggettivi percepiti a livello cosciente di tensione ed apprensione, e dall’aumentata attività del sistema nervoso autonomo. Può variare nel tempo e fluttuare nel tempo”

– L’ansia di tratto, invece si riferisce alle differenze individuali relativamente stabili, nella disposizione verso l’ansia, cioè a differenze tra le persone nella tendenza a rispondere con elevazioni dell’intensità dell’ansia di stato a situazioni percepite come minacciose.

Secondo il DSM V (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) distingue i seguenti disturbi d’ansia:

Disturbo d’ansia da separazione

https://it.wikipedia.org/wiki/Disturbo_d%27ansia_da_separazione

Il disturbo d’ansia da separazione è definita dall’APA (associazione psicologi americani) come la manifestazione inappropriata ed eccessiva di paura e malessere al momento di separarsi da casa o da una specifica figura di riferimento. L’ansia espressa è classificata come atipica rispetto al livello di sviluppo atteso e all’età del soggetto. La gravità dei sintomi varia dal disagio preventivo a veri e propri attacchi di ansia al momento (o anche solo al pensiero) della separazione.

Mutismo selettivo

https://it.wikipedia.org/wiki/Mutismo#Mutismo_selettivo

Il mutismo selettivo è un disturbo dell’infanzia, della fanciullezza e dell’adolescenza e caratterizzato da una persistente incapacità di parlare in certi contesti (per esempio all’asilo o a scuola) nonostante la capacità di parlare in altri contesti sia preservata (per esempio a casa con i genitori). In alcuni casi più gravi il mutismo persiste anche nell’ambiente familiare anche se questi casi sono rari. Esistono molti centri di diagnosi. Colpisce prevalentemente le bambine e si manifesta o all’ingresso della scuola materna o della scuola primaria.

Fobia Specifica

https://it.wikipedia.org/wiki/Fobia_specifica

Una fobia specifica, chiamata anche fobia semplice, è un termine generico per qualsiasi tipo di disturbo caratterizzato da una irrazionale e fortissima risposta di paura in coincidenza con l’esposizione a specifici oggetti o situazioni, nonché una tendenza ad evitare ostinatamente e sistematicamente gli oggetti o le situazioni temute. Il soggetto che ne soffre talvolta non è in grado di rappresentarsi e immaginare le situazioni o le cose temute se non per pochi attimi e può temere anche di nominarle. La paura può essere attivata sia dalla presenza che da tracce che anticipano la presenza dell’oggetto o della situazione che crea disagio.

Disturbo d’ansia sociale

https://it.wikipedia.org/wiki/Fobia_sociale

La fobia sociale è la paura intensa e pervasiva di trovarsi in una particolare situazione sociale, o di eseguire un tipo di prestazione, che non siano, a chi ne è affetto, familiari e da cui possa derivare la possibilità di subire un giudizio altrui. Si tratta di un particolare stato ansioso nel quale il contatto con gli altri è segnato dalla paura di essere malgiudicati e dalla paura di comportarsi in maniera imbarazzante ed umiliante. Le persone affette da questa fobia evitano situazioni spiacevoli, o se sono costrette ad affrontarle sono molto a disagio con loro stesse.

Disturbo di panico

https://it.wikipedia.org/wiki/Attacco_di_panico

Gli attacchi di panico o disturbo da panico sono una classe di disturbi d’ansia, a loro volta i più comuni disturbi psichiatrici, che costituiscono un fenomeno sintomatologico complesso e piuttosto diffuso. Il disturbo di solito esordisce nella tarda adolescenza o nella prima età adulta ed ha un’incidenza da due a tre volte maggiore nelle donne rispetto agli uomini. Tuttavia, spesso non vengono riconosciuti e di conseguenza non vengono curati. Tra i sintomi principali troviamo: l’accelerazione del battito cardiaco, sudorazione, tremore, vertigini, senso di morte imminente, nausea ecc. La maggior parte delle persone guarisce senza terapia specifica, mentre una rilevante minoranza sviluppa invece un disturbo da recidiva di attacchi di panico.

Agorafobia

https://it.wikipedia.org/wiki/Agorafobia

L’agorafobia è la sensazione di paura o grave disagio che un soggetto prova quando si ritrova in ambienti non familiari o comunque in ampi spazi all’aperto, temendo di non riuscire a controllare la situazione che lo porta a desiderare una via di fuga immediata verso un luogo da lui reputato più sicuro.

Disturbo d’ansia generalizzato

Il soggetto che soffre di Disturbo D’ansia Generalizzato prova un’ansia e una preoccupazione molto elevate, che occupano la maggior parte del suo tempo (durata almeno 6 mesi) e invadono la sua area lavorativa, sociale, affettiva ecc. A differenza di altri disturbi la cui ansia è legata ad un determinato oggetto e/o situazione, qui l’oggetto manca ma sussistono tutti i sintomi fisici tipici dell’ansia

Disturbo d’ansia da condizione medica

http://medicinasiena.it/DSM%20-%20IV/classi/classe06/frte11.htm

La caratteristica essenziale di un Disturbo d’Ansia dovuto ad una Condizione Medica Generale è un’ansia clinicamente significativa che si ritiene dovuta agli effetti fisiologici diretti di una condizione medica generale. I sintomi possono includere sintomi di ansia generalizzata prominenti, Attacchi di Panico oppure ossessioni o compulsioni (Criterio A). Deve esservi evidenza dall’anamnesi, dall’esame obbiettivo dai dati di laboratorio che il disturbo è la conseguenza fisiologica diretta di una condizione medica generale (Criterio B). Il disturbo non risulta meglio giustificato da un altro disturbo mentale, come un Disturbo dell’Adattamento, con Ansia, nel quale l’evento stressante sia rappresentato dalla condizione medica generale (Criterio C). Non si pone la diagnosi se i sintomi di ansia si manifestano solo durante il corso di un delirium (Criterio D). I sintomi di ansia devono causare disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti (Criterio E).

Altro disturbo d’ansia specifico

DSM V

Questa categoria si riferisce a quelle condizioni in cui sono presenti i sintomi caratteristici di un disturbo d’ansia che causano un disagio clinicamente significativo o ansia sociale, lavorativa o altre importanti aree di funzionamento predominante ma che non soddisfano totalmente nessuno dei disturbi d’ansia diagnosticabili. Questa categoria viene ripotata dal clinico con “altro disturbo d’ansia specifico” seguito dalla ragione che ha portato al disturbo.

Disturbo d’ansia non altrimenti specificato

http://www.my-personaltrainer.it/salute/disturbo-ansia.html#4

Vengono inclusi in questo gruppo quei disturbi d’ansia o di evitamento fobico significativi che non rientrano nei criteri di nessuno specifico disturbo d’ansia trattato precedentemente. Un esempio è quello del disturbo ansioso-depressivo misto, caratterizzato da una condizione psichica spiacevole con tristezza, ansia ed irritabilità (umore disforico), che si protrae per almeno un mese, associata a difficoltà di concentrazione, senso di vuoto, alterazioni del sonno, sensazione di affaticamento o scarsa energia, ipervigilanza, preoccupazione, facilità al pianto, tendenza a previsioni negative per il futuro, disperazione, scarsa autostima o sentimenti di disprezzo per sé stessi. Piuttosto comune è anche l’associazione, a questi sintomi, di disturbi gastrointestinali.

Cura

– Le psicoterapie per la cura dell’ansia

Trattamenti psicoanalitici

Per quanto riguarda l’ansia, l’approccio psicoanalitico considera il sintomo non come una malattia ma come una manifestazione esterna risultante da una varietà di fattori che, nell’arco della vita del soggetto, hanno contribuito alla formazione di conflitti e difetti. Nell’ambito della relazione terapeutica il soggetto ansioso può arrivare a comprendere il significato di stati d’animo e comportamenti apparentemente incomprensibili e acquisire consapevolezza dei vantaggi secondari che trae dal suo malessere. Una volta raggiunto un maggior grado di coscienza delle proprie dinamiche interne, può essere utile, per il soggetto ansioso, ricercare delle vie di sublimazione dei propri impulsi che gli consentano di incanalare parte della tensione emotiva in attività e interessi da cui trarre gratificazione.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale

La cura dell’ansia nell’ambito delle psicoterapie cognitivo-comportamentali significa eliminazione o riduzione del sintomo e raggiungimento di un adeguato adattamento dell’individuo all’ambiente utilizzando tecniche comportamentali (come per esempio l’esposizione graduale alla situazione ansiogena) e tecniche di ristrutturazione cognitiva. La terapia di basa sulla costruzione e sul mantenimento di una relazione di fiducia tra paziente e terapeuta in modo da evidenziare al suo interno le stesse emozioni sperimentate e gli stessi schemi disfunzionali applicati nella realtà esterna, come ad esempio, la paura del giudizio altrui ed i conseguenti comportamenti di evitamento. Dopodichè il paziente viene aiutate a controllare i propri stati emotivi e a migliorare le sue capacità di autoaffermazione e le attitudini sociali in modo, così, da poter modificare gli schemi mentali che sono alla base della sintomatologia.

La psicoterapia interpersonale

La psicoterapia interpersonale per la cura dell’ansia si attua lungo un programma terapeutico di breve durata (tra le dodici e le sedici sedute rinnovabili) e si fonda su alcuni principi fondamentali. La spiegazione dei fattori che sono alla base della formazione del carattere ansioso ed al loro riconoscimento da parte del soggetto, successivamente viene esaminato ciò che collega l’insorgere dell’ansia agli eventi vissuti quotidianamente e gli eventi che abitualmente amplificano lo stato ansioso. Spetterà poi al terapeuta aiutare il paziente ad acquisire o migliorare le capacità di gestione della propria ansia e le capacità di autoaffermazione.

La psicoterapia integrata

È un metodo psicoterapeutico proposto da Leigh McCulloug Vaillant, psicologa e direttrice del Programma di Ricerca sulla Psicoterapia della facoltà di medicina di Harvard. Tale tipo di terapia viene praticato anche in Italia. E’ l’approccio comunemente utilizzato, in associazione con tecniche connesse alla psicoterapia interpersonale, al training autogeno e alla meditazione. Questo tipo di psicoterapia, definita integrata poiché basata sulla combinazione di un approccio psicoanalitico e di un approccio psicoeducativo di tipo cognitivo-comportamentale, ha lo scopo di promuovere nel paziente un cambiamento dei tratti disfunzionali del suo carattere. Avendo come obiettivo la cura dell’ansia, per sostenere il paziente nel superamento delle proprie resistenze e nella comprensione e conseguente modifica dei propri meccanismi di difesa e di coping.

La psicoterapia familiare o sistemica per la cura dell’ansia

Nei casi in cui l’aiuto terapeutico per la cura dell’ansia venga richiesto non individualmente bensì da un nucleo familiare, può essere utile il ricorso ad un approccio sistemico, che individua la famiglia come un sistema da cui dipendono gli equilibri che in essa si generano e si mantengono. Secondo questo approccio, l’individuo non può essere isolato dal suo contesto di vita, nell’ambito del quale sviluppa necessariamente diversi tipi di interazioni e relazioni che si ripercuotono su tutti i componenti del gruppo. Se uno o più membri della famiglia sono soggetti ansiosi, l’equilibrio di tutto il sistema familiare può essere influenzato negativamente da specifici processi comunicativi di natura principalmente ansiosa che, stabilendosi nel tempo, possono cristallizzarsi in modalità di funzionamento rigide e poco funzionali a tutti i componenti del gruppo familiare. Un intervento di tipo sistemico per la cura dell’ansia può, in questi casi, rendere manifesti questi processi ed innescare la realizzazione di nuovi equilibri che consentano, sia all’intero gruppo sia ai singoli membri, di migliorare le capacità di adattamento ed affrontare con maggiore flessibilità gli eventi della vita.

Lo Stress

In molti soggetti, l’ansia viene vissuta più come una caratteristica del proprio modo di essere piuttosto che come una patologia. Solo quando, l’ansia supera quel limite oltre il quale le condizioni generali di vita divengono invalidanti, diviene necessaria la richiesta di aiuto. Una persona stressata, è una persona caratterizzata da molte crisi ansiose, l’ansia si può, quindi, definire come un sintomo dello stress. Si parla molto di questo argomento, tutti lo conoscono come un senso di tensione, preoccupazione e malessere diffuso, ma si tratta di un concetto assai più vasto.

La letteratura documenta che lo stress è implicato, mediante diversi meccanismi fisio-patologici e psico-relazionali, nella patogenesi di numerosissime disfunzioni e patologie acute e croniche. Gli apparati maggiormente colpiti sono quello cardiovascolare, gastrointestinale, neuropsichico, cutaneo, endocrino, metabolico e immunologico. Lo stress promuove anche la degenerazione neoplastica cellulare oltre ad avere conseguenze negative sulle relazioni familiari e sociali.

Il concetto di stress è nato centinaia di anni fa, ma la psicologia ha iniziato ad usarlo per la prima volta nel 1932 da Cannon come sinonimo di stimolo nocivo. Successivamente Selye (1936) concettualizza lo stress come un insieme di reazioni difensive di natura fisiologica e psicologica attuate per far fronte ad una minaccia o ad una sfida. Selye fu il primo ad aver riconosciuto che lo stress non è una condizione necessariamente patologica e negativa, ma una reazione in primo luogo adattativa, in quanto finalizzata a ristabilire o a mantenere l’equilibrio omeostatico. Tuttavia in determinate condizioni, le sollecitazioni che generano stress possono divenire eccessive fino al punto di non essere più sopportabili dalla persona, con conseguenze negative anche assai gravi per la salute dell’individuo. Pertanto, se da un lato non è possibile evitare lo stress, è però anche indispensabile cercare di fare in modo che le condizioni esterne non presentino fattori stressanti importanti.

Lo stress perciò si manifesta quando l’organismo deve rispondere a tali stimoli esterni. Questa risposta consiste in un’attivazione di sistemi biologici che permettono di affrontare e risolvere la situazione in modo tale da evitare possibili conseguenze negative e permettere l’adattamento nel caso in cui non sia possibile risolvere la situazione stressante. Distinguiamo pertanto uno stress positivo chiamato eustress, che ci rende capaci di adattarci positivamente alle situazioni, e uno stress negativo, chiamato distress quando la situazione stressante richiede uno sforzo di adattamento superiore alle nostre possibilità instaurando così un logorio progressivo che porta al deterioramento delle nostre difese psicofisiche.

Già nel 1984, gli studiosi Lazarus e Folkman intervennero nell’argomento introducendo il termine di stress psicologico come la condizione derivante dall’interazione di variabili ambientali e individuali, che vengono mediate da variabili di tipo cognitivo. Lo stress viene, quindi, concettualizzato come qualcosa di dinamico, a carattere relazionale. Con tale concetto si sottolinea la componente soggettiva dell’evento stressante, ovvero che l’elemento fondamentale che determina l’entità della reazione emozionale-fisiologica è la valutazione cognitiva che l’individuo compie del suddetto evento stressante. In altre parole, nessun evento esistenziale significativo può essere considerato aprioristicamente patogenetico e, allo stesso tempo, ogni evento suscettibile di produrre una reazione emozionale potrebbe essere definito come avvenimento stressante. Quindi gli eventi sono stressanti nella misura in cui sono percepiti come stressanti, per cui uno stimolo produrrà o meno una reazione distress a seconda di come viene interpretato e valutato. Tuttavia la portata stressogena di un evento è determinata, oltre che dalla valutazione cognitiva dello stimolo compiuta dall’individuo, anche dalle caratteristiche oggettive dello stimolo, ovvero dalla qualità dell’evento e dalla sua quantità.

La sindrome generale di adattamento

Lo stress può essere visto come una reazione da parte del nostro corpo a un cambiamento: ogni giorno subiamo dello stress, ma per fortuna la maggior parte di questo è positivo e ci serve per migliorare la nostra esistenza e la nostra condizione sia fisica che mentale.

Quando però lo stress diventa troppo forte e perdura per troppo tempo può diventare causa di moltissimi problemi sia a livello mentale, sia a livello fisiologico del nostro corpo.

Le ricerche di Selye e di altri scienziati hanno chiarito la complessa fisiologia delle tre fasi della sindrome generale di adattamento.

Gli stimoli esterni a cui siamo esposti quotidianamente sono molteplici, ed in base ad essi il nostro organismo risponderà di conseguenza. In particolare possiamo distinguere:

– stress acuto: quando gli eventi stressanti si presentano in modo acuto e la risposta dell’organismo si esaurisce nel giro di pochi minuti o di ore;

– stress cronico: quando gli eventi stressanti si protraggono per giorni, settimane, mesi e la risposta dell’organismo si protrae nel tempo.

Quando parliamo di stress cronico parliamo di problemi che possono risultare molto seri per la salute della persone ed è giusto sapere quali meccanismi vengano innescati quando ci troviamo di fronte ad uno stressor. Selye distinse 3 fasi della sindrome generale di adattamento:

– Fase di allarme: In questa prima fase il corpo si impegna totalmente a richiamare tutte le forze e le energie per far fronte allo stressor nel migliore dei modi. La principale reazione interna è la produzione di adrenalina (catecolamine) con conseguente aumento del battito cardiaco: il corpo si prepara alla classica risposta “combatti o fuggi”, dominata dal nostro istinto di sopravvivenza.

– Resistenza o adattamento: Questo è il momento più importante, nel quale il nostro organismo si adegua alle nuove circostanza e cerca di resistere finché l’elemento stressante non scompare. In questa fase di resistenza abbiamo la sovrapproduzione di cortisolo che causa un indebolimento delle difese immunitarie, arrivando fino alla loro soppressione: questo inizialmente non causa problemi, ma nel lungo periodo con uno stress cronico rende molto più probabile l’attecchimento di molte malattie virali, batteriche e si pensa anche autoimmuni come l’artrite reumatoide o la sclerosi multipla.

– Esaurimento: questa è la fase conclusiva dello stress che assicura al corpo il riposo necessario per rimettersi completamente; in genere comincia quando l’organismo percepisce il pericolo come finito o quando le energie cominciano a venir meno.

Quando la fase di resistenza termina, si possono presentare due casi:

– le energie non sono esaurite del tutto e la persona avverte la fase di esaurimento come un torpore benefico rilassante, con una sensibile sensazione di debolezza e lassità (come dopo una competizione o un rapporto sessuale)

– la fase di resistenza è durata troppo e l’esaurimento è dovuto alla completa mancanza di energie, con periodi di recupero lunghi e debilitanti (anche depressivi)

Biochimicamente parlando abbiamo un calo repentino degli ormoni surrenalici (adrenalina, noradrenalina e cortisolo) e la rapida diminuzione delle riserve energetiche. In sostanza ci troviamo davanti a un’azione depressiva contraria a quella da resistenza che tenderà a riportare il corpo nella condizione precedente allo stress e quindi in equilibrio. Importante ricordare che molte volte quando il soggetto diventa stress-dipendente, arrivando a vivere fasi di resistenza prolungatissime, può sentire la necessità impellente di utilizzare sedativi, alcool, fumo e altri mezzi per passare artificialmente alla fase di esaurimento e permettere al proprio corpo di riposarsi.

Stress lavorativo

Per quanto riguarda lo stress lavorativo, in Italia sono stati fatti passi avanti sul riconoscimento delle problematiche connesse a questo ambito. Sono state riconosciute dal Piano Sanitario Nazionale 2003-2005 le patologie da fattori psico-sociali associate a stress e gli effetti sulla salute dei fattori organizzativi del lavoro. Inoltre il D.Lgs. n. 81/2008 ha sancito la regolamentazione della sicurezza sul lavoro includendo anche quella relativa allo stress lavoro-correlato.

Lo stress sul lavoro può colpire chiunque a qualsiasi livello e di qualsiasi mansione, tuttavia per poter individuare chi ne è interessato è necessario tener conto delle diverse caratteristiche dei lavoratori. Inoltre non tutte le manifestazioni di stress sono imputabili al solo ambito lavorativo, bensì possono essere state portate da problematiche esterne.

Come è stato detto in precedenza, lo stress è legato alla patogenesi di numerosissime disfunzioni e patologie, influendo quindi sulla salute del lavoratore e provocando, da parte sua, assenteismo, problemi di condotta, violenza di natura psicologica, riduzione della produttività, errori e infortuni, aumento dei costi d’indennizzo o delle spese mediche ecc. Tutto questo rende evidente come il problema dello stress lavoro correlato sia importante non solo per la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore, ma anche per la tutela dell’azienda.

Lo stress lavorativo è dato dall’insieme di vari fattori quali le condizioni lavorative (ambiente, orari, responsabilità ecc.) e le caratteristiche psico-fisiche (personalità, salute, motivazione ecc.) e socio-demografiche (condizioni economiche, situazione familiare ecc.) del lavoratore. Quando l’interazione tra questi fattori è squilibrata, si genera la cosiddetta condizione di “strain” che può manifestarsi in diversi modi variamente associati tra loro cioè con sintomi e segni fisici, mentali, emozionali e comportamentali.

Quindi il soggetto potrebbe ritrovarsi a soffrire di condizioni quali mal di testa, stanchezza, senso di tristezza, abuso di alcol, conflitti familiare ecc. Si può dire che sotto al concetto di rischio stress lavoro-correlato facciano parte una serie di elementi di natura soggettiva, ovvero relativi a come il soggetto interpreta e reagisce alle situazioni, ma anche di elementi oggettivi relativi cioè alla mansione specifica che il lavoratore svolge ed infine elementi relativi al clima aziendale.

L’analisi del rischio si basa sulla rilevazione dei diversi elementi e indicatori in grado di fornire informazioni utili sui diversi aspetti del problema. È importante perciò un’attenta analisi delle condizioni di lavoro, per la quale si possono utilizzare tecniche di job analysis e check list basate su modelli osservazionali e su riscontri oggettivi (ad es. organigramma e funzionigramma, orari, carichi di lavoro, procedure operative, condizioni ambientali, contesto esterno, gestione del personale, ecc.). E altrettanto importante rilevare la percezione soggettiva dei lavoratori, mediante interviste strutturate o semistrutturate e compilazione di questionari.

Le tipologie di problemi stress correlati sono fondamentalmente 3: lo stress strain, il burnout e il mobbing.

Stress Strain

Lo stress strain è caratterizzato dal fatto che il soggetto non riesce più a svolgere la propria attività lavorativa ed ha difficoltà a svolgere gli impegni quotidiani. Il soggetto è consapevole che la situazione potrebbe sfuggire dal proprio controllo, ed è proprio questa sua consapevolezza ad aumentare il disagio che aggrava ulteriormente la sua situazione personale negli ambiti lavorativi e familiari dai quali tende ad isolarsi.

Burnout

Il termine burnout si traduce letteralmente “bruciarsi”, inteso come “esaurito”. La sindrome da burnout si riferisce infatti ad una condizione di esaurimento emotivo causato dallo stress e dovuto alle condizioni lavorative ed altri aspetti della vita. Si tratta di una tipologia specifica di disagio psicofisico che colpisce in misura prevalente coloro che svolgono le cosiddette professioni d’aiuto ma anche coloro che pur avendo obiettivi lavorativi diversi dall’assistenza, entrano continuamente in contatto con persone che vivono stati di disagio o sofferenza, in particolare coloro che operano in ambiti sociali e sanitari come medici, psicologi, assistenti sociali, esperti di orientamento al lavoro, fisioterapeuti, operatori dell’assistenza sociale e sanitaria, infermieri e operatori del volontariato. Nella letteratura sono stati descritti 3 gruppi di sintomi quali psichici (esaurimento emotivo, Collasso della motivazione, caduta dell’autostima ecc.), comportamentali (progressivo ritiro dalla realtà lavorativa, difficoltà a scherzare sul lavoro, perdita dell’autocontrollo ecc.) e fisici (disfunzioni gastrointestinali, insonnia, disturbi dell’appetito ecc.). Chi vive questa condizione manifesta disaffezione al proprio lavoro, delusione, intolleranza, indifferenza, spesso associate anche a sensi di colpa.

Mobbing

Il mobbing consiste in violenze morali e psicologiche reiterate nel tempo, causa d’elevato potenziale stressogeno che limita la qualità della vita del soggetto mobbizzato. Le azioni avversative sono quindi costituite da attacchi alla persona e alla situazione di lavoro, cioè alla professionalità e allo sviluppo di carriera. Gli attacchi alla persona, che diviene la vittima, consistono in comportamenti di esclusione, isolamento, emarginazione o anche offese, minacce di violenza, ridicolizzazione, istigazioni contro la persona da parte di altri ecc. Gli attacchi alla situazione di lavoro sono rappresentati invece da, dequalificazione, assegnazione di attività incompatibili con il background professionale o culturale del dipendente, critiche continue, riduzione dei compiti e delle responsabilità del lavoratore o anche sovraccarichi di lavoro con scadenze impossibili da rispettare, trasferimenti ecc. Il mobbing, soprattutto se vissuto a lungo, comporta in moltissimi casi alterazioni della qualità della vita. La vittima tende a ritirarsi dal proprio ambiente di vita, diminuendo i propri interessi perché prova imbarazzo e vergogna della situazione che vive. Questo comportamento è indice del disagio psicofisico della persona che può sfociare, in alcuni casi, in una condizione clinica con conseguente danno alla salute. Il medico del lavoro dovrà pertanto raccogliere nel migliore dei modi i dati anamnestici del paziente e tramite il colloquio comprendere quale sia l’entità del problema. Il medico competente in materia di lavoro attuerà una serie di passaggi all’interno dell’azienda e di contatto con le figure di riferimento al suo interno al fine di ridurre lo stress del lavoratore migliorandone così le condizioni di salute, che limiteranno così anche i costi aziendali da assenteismo ed infortuni stress correlati.