Curiosità sulla Biologia delle emozioni

Curiosità sulla Biologia delle emozioni

Curiosità sulla Biologia delle emozioni

Sembra ormai assodato che esistano diverse aree cerebrali implicate nel coordinamento e integrazione delle emozioni (Mercenaro, 2006)[1]

Esse sono, in particolare: il circuito di Papez composto da ipotalamo, ippocampo e giro del cingolo, e il sistema limbico, centro unitario che regola tutta l’esperienza emozionale, costituito dalle zone precedenti più tubercolo olfattivo, setto e amigdala. 

Secondo Allman e colleghi (2001) nella corteccia cingolata anteriore, che è una specializzazione della neocorteccia risiederebbero le funzioni principali del comportamento intelligente in affiancamento alle emozioni. 

Tale struttura, infatti, contiene una classe di neuroni affusolati che influiscono sulla competenza adulta di autocontrollo emotivo. 

Non tutti i ricercatori del settore, tuttavia, sono d’accordo con queste assunzioni. Il modello di McLean, ad esempio, è stato criticato da vari autori su aspetti differenti. 


[1] Mercenaro S  (2006). La mente emotiva, Carocci Ed. Roma, 2006.
Educare alle emozioni

Educare alle emozioni

Le emozioni sono presenti in ognuno di noi ogni giorno, ogni minuto. Proviamo quotidianamente emozioni che ci condizionano, ma che cos’è un’emozione? 

Nel suo dizionario di psicologia Galimberti (1999)[1] definisce l’emozione come una “reazione affettiva intensa con insorgenza acuta e di breve durata determinata da uno stimolo ambientale” che provoca delle conseguenze sul piano somatico, vegetativo e psichico (reazioni fisiologiche, viscerali e psicologiche). 

L’emozione può essere anche definita, utilizzando altri termini, come “un processo che ha un inizio, una durata e una fase di attenuazione” e dove questa viene accompagnata da “modificazioni fisiologiche, espressioni facciali e comportamenti” diversi tra loro (D’Urso & Trentin, 1998)[2]. Le emozioni, solitamente, nascono in relazione o in risposta ad un evento, esterno o interno, che ha un impatto positivo o negativo a dipendenza del significato che ne da la persona che le prova (Salovey & Mayer, 1990)[3].

Secondo Goleman “tutte le emozioni sono, essenzialmente, impulsi ad agire; in altre parole, piani d’azione dei quali ci ha dotato l’evoluzione per gestire in tempo reale le emergenze della vita. La radice stessa della parola emozione è il verbo latino moveo, muovere con l’aggiunta del prefisso -e, per indicare che in ogni emozione è implicita una tendenza all’agire. Vi sono centinaia di emozioni con tutte le loro mescolanze, variazioni, mutazioni e sfumature. In effetti le parole di cui disponiamo sono insufficienti a significare ogni sottile variazione emotiva”. (Goleman, 1966, p.333)[4]

L’emozione è una reazione che ci salva dai pericoli e ci spinge verso cose positive. Reagiamo emotivamente prima di essere consapevoli e ogni emozione è sempre frutto di una valutazione che l’individuo fa in base al suo vissuto.  Le emozioni influenzano l’attenzione, la memoria, gli apprendimenti, le relazioni, la salute fisica e mentale. Di conseguenza è fondamentale educare le emozioni, partendo dalle emozioni primarie, fin dalla scuola dell’infanzia (Antognazza, 2017)[5].


[1] Galimberti, U. (1999). Psicologia . Milano: Garzanti Libri.
[2] D’Urso, V., & Trentin, R. (1998). Introduzione alla psicologia delle emozioni. Bari: Giuseppe Laterza & Figli.
[3] Salovey, P., & Mayer, J. D. (1990). Emotional Intelligence. Baywood Publishing Co., Inc: New York
[4] Goleman, D. (1996). Intelligenza emotiva. Milano: Rizzoli
[5] Antognazza, D. (2017). Crescere emotivamente competenti. Molfetta: La Meridiana.

La relazione tra fratelli tra rivalità e cooperazione

La relazione tra fratelli tra rivalità e cooperazione

Ciò che caratterizza il legame fraterno “è la possibilità di sperimentare contemporaneamente la complicità e la rivalità, entrambe dovute alla condizione di possedere i medesimi genitori”. (Scalisi, 1995, p. 21)[1] Gelosie, rivalità e litigi, sono delle modalità passionali che possono esprimere legami fraterni. Sono esperienze che portano i fratelli a confrontarsi, a relazionarsi e a capire le diversità. La competizione tra fratelli è quasi sempre dovuta dalla ricerca di amore, attenzione e approvazione dai genitori. Quando un rapporto diventa ingestibile, è importante che i genitori stabiliscano dei limiti e rassicurino i figli riguardo all’amore che provano per ognuno di loro. I fratelli creano un sentimento di cooperazione, di sostegno e aiuto reciproco. Tuttavia, il rapporto può trasformarsi in gelosia, rivalità e litigi. In poco tempo il gioco può mutare in litigio, l’affetto in rivalità e la tenerezza in aggressività.  

La rivalità, come i litigi, possono essere visti in modo positivo, in quanto portano i fratelli a conoscersi l’un l’altro (Laniado, 2002)[2]. Psicologicamente, entrambi i bambini traggono dei benefici. Il primogenito diventa un modello per il fratellino (imitazione), tanto da accompagnarlo nel suo sviluppo; di conseguenza, il più piccolo aiuterà il primogenito a maturare ed arricchire il proprio mondo interiore e ad imparare a relazionarsi con gli altri. Litigare, per il bambino, è un aiuto alla crescita e all’affermazione del sé. All’interno della famiglia, il bambino acquisisce i concetti di vincita, perdita, gestione della frustrazione, capacità di spiegare le proprie motivazioni, oppure difendere le proprie cose e se stessi. Il rapporto tra due fratelli getta le basi di una vita sociale e scopre i propri limiti così come i diversi punti di vista degli altri. Esso porta i bambini ad imparare a collaborare, a condividere e a rispettarsi l’un l’altro.


[1] Scalisi, R. (1995). La gelosia tra fratelli: come aiutare i nostri figli ad accettare il nuovo arrivato. Milano: FrancoAngeli.
[2] Laniado, N. (2002). Bambini gelosi: come risolvere le rivalità tra fratelli senza fare preferenze. Novara: Red Edizioni.
Disturbo d’ansia da separazione

Disturbo d’ansia da separazione

L’ansia da separazione è una fase normale dello sviluppo, solitamente si presenta per la prima volta intorno agli 8 mesi e si risolve entro i 24 mesi (Elia, 2023). È bene tuttavia fare una breve disamina di quale sia la differenza tra l’ansia di separazione e il vero e proprio disturbo d’ansia di separazione in quanto, nonostante i termini sembrino indicare la stessa cosa, in realtà è solo nel secondo caso che si può parlare di patologia. L’ansia di separazione si presenta come una momentanea incapacità, adeguata per lo stadio di sviluppo del bambino, di comprendere il concetto di permanenza dell’oggetto: ‘l’idea che qualcosa esiste ancora quando non è visto o sentito’ (Elia, 2023).

I neonati non possiedono ancora questa capacità, che tenderà a svilupparsi intorno ai due anni; alcune tecniche per valutarne la presenza prevedono di nascondere davanti ai bambini un oggetto “significativo”, come il ciuccio, sotto una coperta: essi inizieranno a piangere temendo che l’oggetto a loro caro sia scomparso. Analogamente questo processo si verifica anche con i genitori: nel momento in cui i genitori non sono più presenti nel campo visivo del piccolo, perché usciti di casa o banalmente perché hanno cambiato stanza il bambino proverà paura e angoscia dovute al fatto che crederà che il caregiver non tornerà più da loro. ‘L’ansia da separazione si risolve quando i bambini iniziano a sviluppare un senso di memoria ’ (Elia, 2023), ovvero la possibilità di interiorizzare il fatto che la figura di attaccamento in varie circostanze è sempre tornata da loro, creando un’immagine stabile e persistente nella memoria che genererà un senso di stabilità e sicurezza.

Nel caso in cui entro i 24 mesi il piccolo non sia riuscito a superare questa fase, e la paura di allontanarsi da una figura di riferimento fosse troppo intensa da causare un disfunzionamento significativo e persistente, è possibile formulare una diagnosi di disturbo d’ansia di separazione.

La caratteristica essenziale di questo quadro clinico è la difficoltà sproporzionata dei soggetti di lasciare le figure di riferimento a causa di una paura eccessiva e costante che possa accadere loro o a se stessi qualcosa di terribile, per questo motivo si rifiutano di lasciare l’ambiente famigliare o di rimanere da soli e ‘quando vengono separati, i bambini si focalizzano sul ricongiungimento con la figura di riferimento’ (Elia, 2023). In caso il bambino fosse costretto a rimanere solo lontano da casa sperimenta ‘un umore ansioso e depresso, apatia, disinteresse, irrequietezza, forte malinconia’; in ragione di ciò spesso vengono infatti rifiutate anche tutte quelle attività che presentano un carattere ludico che comportano una separazione, come ad esempio il campeggio con i coetanei o le gite scolastiche. Le scene che si verificano al momento della separazione sono spesso molto drammatiche, includono pianti e suppliche con una disperazione tale per cui il genitore non riesce a separarsi dal proprio bambino e questo genera una sorta di circolo vizioso che aumenta la difficoltà di quest’ultimo di imparare ad accettare l’allontanamento. Affinché possa essere diagnosticato un disturbo d’ansia di separazione ‘i sintomi devono essere pervasivi e impedire al bambino che ne soffre di dedicarsi alle comuni attività tipiche del[1]l’età (es. scolastiche, sportive etc. e devono essere persistenti per almeno 4 settimane).

Eziologia del disturbo d’ansia

Eziologia del disturbo d’ansia

Le cause eziologiche del disturbo d’ansia non sono chiare; si suppone che fattori di tipo biologico, psicologico e ambientale contribuiscano all’insorgenza. Fattori di rischio riguardano diverse variabili come l’eredità genetica, ma anche lo stile genitoriale, le possibili psicopatologie genitoriali e il temperamento inibito del bambino (Pop-Jordanova, 2019).

Se almeno un genitore presenta un disturbo d’ansia, il rischio che anche il figlio ne sia affetto aumenta. Il rischio aumenta esponenzialmente se entrambi i genitori ne soffrono (Al-Biltagi & Ali Sarhan, 2016).

Stili genitoriali iperprotettivi, ipecontrollanti, ipercritici e trascuranti sono fattori di rischio, soprattutto se il bambino presenta un temperamento inibito, poiché vengono rinforzati meccanismi di coping disfunzionali (Al-Biltagi & Ali Sarhan, 2016). Altri fattori di rischio sono rappresentati dalla mancanza di relazioni protettive con figure di riferimento adulte (Al-Biltagi & Ali Sarhan, 2016), ed eventi ambientali stressanti, come le alte aspettative dei genitori e degli insegnanti, le ambizioni irrealistiche e le pressioni scolastiche.

È comune che bambini sotto stress sviluppino sintomi psicosomatici, con una prevalenza del 2.39% (Walsh et al., 2021), con sintomi riguardanti stanchezza, mal di testa, mal di stomaco, mani sudate e pianto, comportamenti nervosi, di fuga, atteggiamenti aggressivi, difensivi e autoconsolatori, nonché disturbi d’ansia (Pop-Jordanova, 2019).

Inoltre, l’esposizione prematura a eventi traumatici, come catastrofi naturali, ospedalizzazioni precoci, perdita dei genitori, abusi, trascuratezza, ma anche il divorzio e la separazione dei genitori, aumenta il rischio di sviluppare disturbi d’ansia e depressione (Elmore & Crouch, 2020).