Disturbi d’ansia nell’infanzia

Disturbi d’ansia nell’infanzia

I disturbi d’ansia nell’infanzia secondo il PDM 2 0/18 ‘Per i bambini e gli adulti l’esperienza dell’ansia dipende da una valutazione delle potenziali strategie di coping’ (PDM 2 0/18, 2018, p.156).

L’ansia può essere intesa come uno stato d’animo che mette in moto le risposte di coping adattive ma anche le azioni disadattive. La capacità di affrontare l’ansia determina, in certa misura, il proprio benessere emotivo. I fattori di rischio rilevanti nello sviluppo dei disturbi d’ansia sono:

i fattori biologici, ‘evidenti nel temperamento già nei primi mesi di vita’ (PDM 2 0/18, 2018, p.156);

i fattori familiari, ‘attaccamento insicuro, conflitti coniugali ed elevati livelli di critica e ipercontrollo genitoriale’ (PDM 2 0/18, 2018, p.156)

ed infine i disturbi dell’apprendimento, il rifiuto da parte dei coetanei ed il bullismo.

L’ansia può manifestarsi nei bambini sotto diverse forme, tuttavia la diagnosi di tale disturbo può essere formulata solo qualora ‘l’esperienza d’ansia di un bambino causa un disagio significativo per un esteso periodo di tempo e/o interferisce con la sua capacità di partecipare alle normali attività della vita quotidiana’ (ibidem, p.156). Scendendo nel particolare possiamo analizzare quale sia l’esperienza soggettiva dei disturbi d’ansia nell’infanzia. I bambini ansiosi tendono a preoccuparsi eccessivamente risultando particolarmente richiedenti e “appiccicosi”, ma rischiano anche di mostrarsi come ostili e controllanti a causa delle richieste pressanti generate dal tentativo di evitare situazioni che possono renderli ansiosi. Questa varietà di comportamenti messi in atto rischiano talvolta di essere fraintesi dai genitori che spesso rispondono con punizioni o rabbia, causando l’attivarsi di un circolo vizioso di interazioni negative, che conducono sia a continui stati ansiosi, sia a un aumento del conflitto familiare (PDM 2 0/18, 2018, p.156). L’immaginazione, il pensiero e il comportamento sono condizionati dall’umore ansioso ed è per questo che ‘i bambini ansiosi si aspettano o immaginano che possano accadere loro delle brutte cose; nel modo di comportarsi, evitano o si ritirano dalle attività comuni, o possono lanciarsi verso di esse in modo controfobico’ (PDM 2 0/18, 2018, p.156).

Incubi, disturbi del sonno e del comportamento alimentare e comportamenti regressivi sono espressioni comuni dell’ansia nei bambini’ (PDM 2 0/18, 2018, p.156); per ridurre l’esperienza soggettiva dell’ansia vengono spesso utilizzati dei meccanismi di difesa (es negazione, spostamento). Tendenzialmente i bambini ‘negano di provare l’ansia, ma lamentano invece dei sintomi somatici’ (PDM 2 0/18, 2018, p.156). Rilevare l’ansia nei bambini non è sempre facile in quanto essi possono mascherarla, involontariamente, attraverso un comportamento oppositivo o un atteggiamento di indifferenza.

Disturbi d’ansia secondo il DSM-5

Disturbi d’ansia secondo il DSM-5

‘I disturbi d’ansia comprendono quei disturbi che condividono caratteristiche di paura e ansia eccessive e i disturbi comportamentali correlati’ (DSM-5, 2013, p.217). La paura e l’ansia sono due stati che si sovrappongono ma che presentano anche delle differenze: ‘la paura è una risposta emotiva ad una minaccia imminente, reale o percepita, mentre l’ansia è l’anticipazione di una minaccia futura’ (DSM-5, 2013, p.217)-

 La prima è contrassegnata da picchi di attivazione autonomica necessaria alla lotta o alla fuga, mentre la seconda da una tensione muscolare e vigilanza in preparazione al pericolo futuro e a comportamenti prudenti o di evitamento. Gli attacchi di panico rivestono un ruolo importante all’interno dei disturbi d’ansia in quanto costituiscono un particolare tipo di risposta alla paura. I disturbi d’ansia si differenziano tra loro per ‘la tipologia di oggetti o di situazioni che provocano paura, ansia oppure comportamenti di evitamento, e per l’ideazione cognitiva associata’ (DSM-5, 2013, p.217); nonostante ciò presentano un alto grado di comorbilità tra di loro.

‘I disturbi d’ansia differiscono dalla normale paura o ansia evolutive perché sono eccessivi o persistenti rispetto allo stadio di sviluppo. Essi differiscono dalla paura o dall’ansia transitorie, spesso indotte da stress, perché sono persistenti (durano tipicamente 6 mesi o più) ’ (DSM-5, 2013, p.217), questo criterio presenta comunque un certo grado di flessibilità di durata,  infatti certe volte nei bambini è di durata minore. ‘La valutazione primaria per stabilire se la paura o l’ansia siano eccessive o sproporzionate è fatta dal clinico, tenendo conto di fattori culturali contestuali’ (DSM-5, 2013, p.217). Molti dei disturbi d’ansia si verificano in età infantile, prevalentemente nelle femmine rispetto ai maschi, e tendono a protrarsi nel corso dello sviluppo se non vengono curati. Se i sintomi non sono attribuibili agli effetti di un farmaco/sostanza o non sono meglio spiegati da un altro disturbo mentale si può fare una diagnosi di disturbo d’ansia.

Bibliografia:
American Psychiatric Association (2013). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi men[1]tali, Quinta edizione (DSM-5), trad it. Cortina, Mila

Disturbi d’Ansia: Caratteristiche e Criteri Diagnostici nel DSM 5 (test-psicologici.it)

Hikikomori

Hikikomori

L’hikikomori rappresenta una grave forma di ritiro sociale, diffusa tra i giovani ed è attualmente oggetto di allarme e preoccupazione nelle società urbanizzate e tecnologicamente avanzate.


Hikikomori deriva dai verbi giapponesi hiku (tirare indietro) e komoru (ritirarsi) e porta l’attenzione sull’aspetto principale del fenomeno, ovvero il ritiro e l’isolamento dell’individuo dalle relazioni sociali. Il termine può riferirsi sia a colui che ne è afflitto sia alla condizione stessa, vale a dire un comportamento sociale singolare che consiste in un’autoresclusione volontaria. Il primo studio, che ha suggerito l’esistenza di una nuova condizione caratterizzata da ritiro sociale, risale alla fine degli anni ’705, quando alcuni professionisti della salute mentale giapponese avevano riportato casi di taikyaku shinkeishou (nevrosi da ritiro).

Tuttavia, è alla fine degli anni ’80 che il termine hikikomori inizia a essere utilizzato per indicare giovani che si confinano nella propria stanza, rinunciando alle relazioni interpersonali per un periodo prolungato di tempo, della durata di almeno sei mesi in assenza di altri disturbi psichiatrici che spieghino il sintomo principale di ritiro.
Il Ministero della Salute, del Lavoro e del Welfare del Giappone ha stabilito cinque criteri per la definizione dell’hikikomori (Ito et al, 2003):

  1. stile di vita centrato sul restare chiuso in casa;
  2. mancanza di interesse e volontà a frequentare la scuola o a lavorare;
  3. persistenza dei sintomi oltre i 6 mesi;
  4. esclusione di disturbo dello spettro della schizofrenia, di disabilità intellettiva o altri disturbi mentali
  5. esclusione di coloro che, pur non mostrando interesse per la scuola o il lavoro, mantengono relazioni interpersonali.

Sebbene tali condizioni siano state riscontrate prevalentemente all’interno dei confini nipponici, la letteratura scientifica riporta casi anche in Spagna, Oman, Stati Uniti, Italia e in altre nazioni.
Negli ultimi anni anche in Italia l’hikikomori ha attirato l’attenzione dei clinici e dei ricercatori (ricci, 2008;2009).
Nello specifico, l’interesse è rivolto al comportamento di ritiro sociale messo in atto da adolescenti, prevalentemente maschi, che si allontanano dai contesti generalmente frequentati da altre persone e/o coetanei, come la scuola e il luogo di lavoro, riducendo progressivamente i contatti con il mondo esterno.


Bibliografia
Ito J, Ikehara K, Kim Y, et al. Community Mental Health Intervention Guidelines aimed at Socially Withdrawn Teenagers and Young Adults. Tokyo: Ministry of Health, Labour & Welfare 2003.
Ricci C. Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione. Milano: Franco Angeli, 2008.
Ricci C. Narrazioni da una porta chiusa. Roma: Aracne Editrice, 2009.
Gli effetti della meditazione

Gli effetti della meditazione

In ambito clinico, accanto alle terapie convenzionali, oggi più che mai si stanno affiancando da un lato le terapie complementari, dall’altro quelle alternative.

La meditazione rientra proprio nelle terapie complementari, pratiche finalizzate alla prevenzione, al trattamento delle malattie o alla promozione della salute.

La meditazione può essere definita come uno stato di puro benessere, di consapevolezza, di osservazione e di attenzione. È una condizione non tanto da raggiungere, quanto da riconoscere; una condizione mentale di quiete, di unità. Si basa su un’osservazione silente, senza filtri, priva di pregiudizi. La sua pratica non resta circoscritta a momento specifico della meditazione, ma si estende al resto dell’esistenza quotidiana al punto da favorire un profondo mutamento del proprio essere nel mondo. Mediante la meditazione il soggetto viene invitato a focalizzarsi sulla respirazione anche per favorire la concentrazione.

Esistono vari tipi di meditazione, ognuna con caratteristiche specifiche, modi di azione a livello fisico, psichico e psicologico. Esse sono accomunate dal fatto di comportare un addestramento volontario da parte della persona della propria attenzione e consapevolezza. Gradualmente, nel tempo, la meditazione è stata impiegata anche in ambito clinico. In questo senso, non solo offre una possibilità per ridurre le sofferenze , ma rappresenta un modo per rafforzare anche l’autostima del paziente.

Questa attenzione per la meditazione si inserisce in un contesto in cui si sta passando da un modello biomedico a un modello biopsicosociale in cui l’individuo viene considerato in senso olistico, come unità di corpo e mente e su cui influiscono anche i fattori del contesto sociale in cui vive.
Ricerche asseriscono che la meditazione è in grado di ridurre indurre vere e proprie modifiche a livello neurocerebrale andando a modulare la corteccia cerebrale.

La pratica della meditazione è in grado di favorire l’esecuzione di compiti mnemonici, favorisce inoltre il ricordo libero degli eventi.
La meditazione può ridurre i rischi cardiaci e i rischi di altri disturbi cronici (pressione sanguigna, stress psicologico ecc.). Essa può anche fungere da supporto in un approccio psicoterapeutico.

La pratica costante della meditazione è anche in grado di rafforzare il sistema immunitario nelle persone sane in un ambiente lavorativo e di accentuare i vissuti emotivi positivi. Essa favorisce le quiete mentale, il senso di gratitudine e la riduzione delle preoccupazioni.

Insegnanti e burnout

Insegnanti e burnout

La figura dell’insegnante ha da sempre ricoperto un ruolo di particolare importanza sia per l’insegnamento, in quanto tale, sia per il ruolo educativo.

Nel corso degli anni la scuola è stata, ed è ancora oggi, protagonista di molteplici cambiamenti alcuni anche incomprensibili.

Ovviamente quando si parla di benessere degli studenti non si può non fare riferimento anche al benessere dei docenti, condizione indispensabile per un effettivo coinvolgimento dei giovani in formazione nel loro personale percorso di crescita culturale e umana.

L’insegnate, che opera nell’ambito delle istituzioni educative, è un “lavoratore della conoscenza”, appartenente ad uno specifico progetto educativo. Svolgono un importante ruolo in cui l’educazione viene considerata come un processo continuo volto a promuovere l’autonomia e la consapevolezza nelle scelte legate alla salute e al benessere e si basa proprio sul protagonismo dei docenti che trasmettono tali parametri.

Soprattutto oggi il compito primario della scuola mira a prevenire, combattere il disagio, la demotivazione, la dispersione scolastica, la devianza per consentire agli studenti livelli il più possibile elevati di benessere psicofisico, di motivazione ad apprendere. Quotidianamente, attraverso la scuola, gli alunni hanno la possibilità di cogliere straordinarie opportunità: crescita intellettuale, acquisizione di responsabilità, maturazione; ma allo stesso tempo si misurano anche con le difficoltà, gli errori, la fatica. Di fondamentale importanza sono le relazioni, il clima scolastico che possono influenzare la qualità di vita dello studente.

Nelle società post-industriali, e soprattutto nei contesti urbani, l’organizzazione della vita si è profondamente modificata rispetto al passato. La quantità di mansioni e compiti che è necessario assolvere quotidianamente continua ad incrementarsi. Lo sviluppo tecnologico ha favorito l’accelerazione delle comunicazioni, ma ciò implica anche maggiori aspettative in termini di rapidità ed efficienza delle prestazioni.

Le ricerche su stress e burnout lavorativi sono in aumento, e non senza ragione. La sindrome da burnout (o più semplicemente burnout) è l’esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che esercitano professioni , qualora queste non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro li porta ad assumere. Numerosi studi hanno mostrato in particolare come tra le categorie professionali particolarmente esposte a burnout vi siano gli insegnanti, a qualsiasi ordine di scuola appartengano (Byrne, 1991; Guglielmi e Tatrow, 1998). Lo stress da lavoro esprime il disagio di chi, dopo aver investito molto in un’attività lavorativa, si sente demotivato, scoraggiato, incapace di agire, privo di entusiasmo, assume un atteggiamento difensivo, prova angoscia e sofferenza fino a perdere l’efficienza sul piano professionale.

L’insegnante è chiamato a svolgere molteplici ruoli all’interno dell’organizzazione scolastica. È possibile far rientrare il lavoro dell’insegnamento tra le professioni di aiuto per gli altri. Insegnare significa dedicarsi alla crescita intellettiva, sociale, educativa e umana dei giovani.

L’insegnante, con il suo bagaglio di personalità, di motivazioni, di obiettivi, di esperienze, di competenze, ecc., è costretto a lavorare in una struttura organizzativa, la scuola, estremamente complessa, con il suo bagaglio di regole, obiettivi e strumenti. A ciò si aggiunga che la scuola, negli ultimi anni, sta subendo una serie interminabile di riforme che dovrebbero ridefinire regole, obiettivi e strumenti. Possiamo immaginare quale possa essere la condizione dell’insegnante nella scuola, a quali stress, frustrazioni, ansie, ma anche a quali gratificazioni e stimoli possa essere sottoposto. Nel corso degli anni il ruolo dell’insegnante ha subito delle modifiche: all’insegnante sono richieste nuove competenze (sociali, psicologiche, relazionali e gestionali) per le quali non solo non ha una formazione adeguata, ma non fanno altro che sovraccaricarlo di lavoro e confonderlo nei ruoli.

Un ruolo fondamentale è svolto dall’opinione pubblica la quale preme sulla scuola affinché diventi capace di rispondere alle richieste del mondo del lavoro, vuole insegnanti sempre più qualificati. Alle eccessive pressioni esterne, cui è soggetto l’insegnante, un ulteriore fattore di stress è la difficoltà relazionale. L’insegnante deve, prima di tutto, saper comunicare e relazionarsi con gli studenti e con le loro famiglie, ma anche con i colleghi, con i superiori e con tutte quelle figure professionali che sono in stretto contatto con il mondo della scuola.

La categoria degli insegnanti è sottoposta a numerosi stress di tipo professionale. L’origine dello stress può essere ricondotta ad alcuni fattori riguardanti: la particolarità della professione; la trasformazione della società verso uno stile di vita sempre più multietnico e multiculturale; il continuo evolversi della percezione dei valori sociali; l’evoluzione scientifica; il susseguirsi continuo di riforme; la maggior partecipazione degli studenti alle decisioni e conseguente livellamento dei ruoli con i docenti. Altre cause che portano alla sindrome del burnout negli insegnanti possono essere:

Rapporto con studenti / genitori
Classi numerose
Conflittualità tra colleghi
Costante necessità di aggiornamenti
Problemi adolescenziali
Retribuzione insoddisfacente
Scarso riconoscimento sociale della professione
Preparazione pedagogica inadeguata.

Nonostante la molteplicità di fattori scatenanti il burnout, l’individuo, in questo caso l’insegnate, possiede delle specifiche abilità di coping che possono contribuire al superamento di tale situazione di malessere. Possiamo distinguere:

– strategie dirette, che mirano ad affrontare la situazione in modo positivo
– strategie diversive, tese a schivare l’evento
– strategie di fuga o di abbandono dell’attività, per sottrarsi alla situazione stressogena
– strategie palliative cioè incentrate sul ricorso a sostanze come caffè, fumo, alcool, farmaci.

La sindrome del burnout appare seria e insidiosa ma può essere combattuta soprattutto se si tengono in considerazione i sintomi che la contraddistinguono. Si rende necessario all’apparire dei primi segnali di stress il ricorrere ad un supporto psicologico o ad un aiuto esterno da parte di esperti. Il burnout può avere gravi ripercussioni sull’agire del singolo individuo, a volte i sintomi che lo compongono possono presentarsi in maniera cronica e duratura.