da admin_psyco | Gen 27, 2017 | Disturbi d'ansia e stress
In ambito clinico, accanto alle terapie convenzionali, oggi più che mai si stanno affiancando da un lato le terapie complementari, dall’altro quelle alternative.
La meditazione rientra proprio nelle terapie complementari, pratiche finalizzate alla prevenzione, al trattamento delle malattie o alla promozione della salute. La meditazione può essere definita come uno stato di puro benessere, di consapevolezza, di osservazione e di attenzione. È una condizione non tanto da raggiungere, quanto da riconoscere; una condizione mentale di quiete, di unità. Si basa su un’osservazione silente, senza filtri, priva di pregiudizi. La sua pratica non resta circoscritta a momento specifico della meditazione, ma si estende al resto dell’esistenza quotidiana al punto da favorire un profondo mutamento del proprio essere nel mondo. Mediante la meditazione il soggetto viene invitato a focalizzarsi sulla respirazione anche per favorire la concentrazione. Esistono vari tipi di meditazione, ognuna con caratteristiche specifiche, modi di azione a livello fisico, psichico e psicologico. Esse sono accomunate dal fatto di comportare un addestramento volontario da parte della persona della propria attenzione e consapevolezza. Gradualmente, nel tempo, la meditazione è stata impiegata anche in ambito clinico. In questo senso, non solo offre una possibilità per ridurre le sofferenze , ma rappresenta un modo per rafforzare anche l’autostima del paziente. Questa attenzione per la meditazione si inserisce in un contesto in cui si sta passando da un modello biomedico a un modello biopsicosociale in cui l’individuo viene considerato in senso olistico, come unità di corpo e mente e su cui influiscono anche i fattori del contesto sociale in cui vive.
Ricerche asseriscono che la meditazione è in grado di ridurre indurre vere e proprie modifiche a livello neurocerebrale andando a modulare la corteccia cerebrale. La pratica della meditazione è in grado di favorire l’esecuzione di compiti mnemonici, favorisce inoltre il ricordo libero degli eventi.
La meditazione può ridurre i rischi cardiaci e i rischi di altri disturbi cronici (pressione sanguigna, stress psicologico ecc.). Essa può anche fungere da supporto in un approccio psicoterapeutico.
La pratica costante della meditazione è anche in grado di rafforzare il sistema immunitario nelle persone sane in un ambiente lavorativo e di accentuare i vissuti emotivi positivi. Essa favorisce le quiete mentale, il senso di gratitudine e la riduzione delle preoccupazioni.
da admin_psyco | Gen 27, 2017 | Scuola e bambini, Stress da lavoro correlato
La figura dell’insegnante ha da sempre ricoperto un ruolo di particolare importanza sia per l’insegnamento, in quanto tale, sia per il ruolo educativo.
Nel corso degli anni la scuola è stata, ed è ancora oggi, protagonista di molteplici cambiamenti alcuni anche incomprensibili.
Ovviamente quando si parla di benessere degli studenti non si può non fare riferimento anche al benessere dei docenti, condizione indispensabile per un effettivo coinvolgimento dei giovani in formazione nel loro personale percorso di crescita culturale e umana.
L’insegnate, che opera nell’ambito delle istituzioni educative, è un “lavoratore della conoscenza”, appartenente ad uno specifico progetto educativo. Svolgono un importante ruolo in cui l’educazione viene considerata come un processo continuo volto a promuovere l’autonomia e la consapevolezza nelle scelte legate alla salute e al benessere e si basa proprio sul protagonismo dei docenti che trasmettono tali parametri.
Soprattutto oggi il compito primario della scuola mira a prevenire, combattere il disagio, la demotivazione, la dispersione scolastica, la devianza per consentire agli studenti livelli il più possibile elevati di benessere psicofisico, di motivazione ad apprendere. Quotidianamente, attraverso la scuola, gli alunni hanno la possibilità di cogliere straordinarie opportunità: crescita intellettuale, acquisizione di responsabilità, maturazione; ma allo stesso tempo si misurano anche con le difficoltà, gli errori, la fatica. Di fondamentale importanza sono le relazioni, il clima scolastico che possono influenzare la qualità di vita dello studente.
Nelle società post-industriali, e soprattutto nei contesti urbani, l’organizzazione della vita si è profondamente modificata rispetto al passato. La quantità di mansioni e compiti che è necessario assolvere quotidianamente continua ad incrementarsi. Lo sviluppo tecnologico ha favorito l’accelerazione delle comunicazioni, ma ciò implica anche maggiori aspettative in termini di rapidità ed efficienza delle prestazioni.
Le ricerche su stress e burnout lavorativi sono in aumento, e non senza ragione. La sindrome da burnout (o più semplicemente burnout) è l’esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le persone che esercitano professioni , qualora queste non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro li porta ad assumere. Numerosi studi hanno mostrato in particolare come tra le categorie professionali particolarmente esposte a burnout vi siano gli insegnanti, a qualsiasi ordine di scuola appartengano (Byrne, 1991; Guglielmi e Tatrow, 1998). Lo stress da lavoro esprime il disagio di chi, dopo aver investito molto in un’attività lavorativa, si sente demotivato, scoraggiato, incapace di agire, privo di entusiasmo, assume un atteggiamento difensivo, prova angoscia e sofferenza fino a perdere l’efficienza sul piano professionale.
L’insegnante è chiamato a svolgere molteplici ruoli all’interno dell’organizzazione scolastica. È possibile far rientrare il lavoro dell’insegnamento tra le professioni di aiuto per gli altri. Insegnare significa dedicarsi alla crescita intellettiva, sociale, educativa e umana dei giovani.
L’insegnante, con il suo bagaglio di personalità, di motivazioni, di obiettivi, di esperienze, di competenze, ecc., è costretto a lavorare in una struttura organizzativa, la scuola, estremamente complessa, con il suo bagaglio di regole, obiettivi e strumenti. A ciò si aggiunga che la scuola, negli ultimi anni, sta subendo una serie interminabile di riforme che dovrebbero ridefinire regole, obiettivi e strumenti. Possiamo immaginare quale possa essere la condizione dell’insegnante nella scuola, a quali stress, frustrazioni, ansie, ma anche a quali gratificazioni e stimoli possa essere sottoposto. Nel corso degli anni il ruolo dell’insegnante ha subito delle modifiche: all’insegnante sono richieste nuove competenze (sociali, psicologiche, relazionali e gestionali) per le quali non solo non ha una formazione adeguata, ma non fanno altro che sovraccaricarlo di lavoro e confonderlo nei ruoli.
Un ruolo fondamentale è svolto dall’opinione pubblica la quale preme sulla scuola affinché diventi capace di rispondere alle richieste del mondo del lavoro, vuole insegnanti sempre più qualificati. Alle eccessive pressioni esterne, cui è soggetto l’insegnante, un ulteriore fattore di stress è la difficoltà relazionale. L’insegnante deve, prima di tutto, saper comunicare e relazionarsi con gli studenti e con le loro famiglie, ma anche con i colleghi, con i superiori e con tutte quelle figure professionali che sono in stretto contatto con il mondo della scuola.
La categoria degli insegnanti è sottoposta a numerosi stress di tipo professionale. L’origine dello stress può essere ricondotta ad alcuni fattori riguardanti: la particolarità della professione; la trasformazione della società verso uno stile di vita sempre più multietnico e multiculturale; il continuo evolversi della percezione dei valori sociali; l’evoluzione scientifica; il susseguirsi continuo di riforme; la maggior partecipazione degli studenti alle decisioni e conseguente livellamento dei ruoli con i docenti. Altre cause che portano alla sindrome del burnout negli insegnanti possono essere:
Rapporto con studenti / genitori
Classi numerose
Conflittualità tra colleghi
Costante necessità di aggiornamenti
Problemi adolescenziali
Retribuzione insoddisfacente
Scarso riconoscimento sociale della professione
Preparazione pedagogica inadeguata.
Nonostante la molteplicità di fattori scatenanti il burnout, l’individuo, in questo caso l’insegnate, possiede delle specifiche abilità di coping che possono contribuire al superamento di tale situazione di malessere. Possiamo distinguere:
– strategie dirette, che mirano ad affrontare la situazione in modo positivo
– strategie diversive, tese a schivare l’evento
– strategie di fuga o di abbandono dell’attività, per sottrarsi alla situazione stressogena
– strategie palliative cioè incentrate sul ricorso a sostanze come caffè, fumo, alcool, farmaci.
La sindrome del burnout appare seria e insidiosa ma può essere combattuta soprattutto se si tengono in considerazione i sintomi che la contraddistinguono. Si rende necessario all’apparire dei primi segnali di stress il ricorrere ad un supporto psicologico o ad un aiuto esterno da parte di esperti. Il burnout può avere gravi ripercussioni sull’agire del singolo individuo, a volte i sintomi che lo compongono possono presentarsi in maniera cronica e duratura.
da admin_psyco | Gen 20, 2017 | Psicologia dell'emergenza, Scuola e bambini

I comportamenti consigliabili agli adulti nei confronti dei bambini dopo una catastrofe o un evento traumatico possono essere:
– Essere un esempio di calma e controllo. I bambini prendono i suggerimenti emotivi dagli adulti significativi nella loro vita. Evitare di apparire ansiosi o impauriti.
– Rassicurare i bambini che sono al sicuro e lo sono anche gli altri adulti importanti nella loro vita.
– Ricordare loro che la responsabilità del caso è in mano a persone fidate. Spiegare che operatori di emergenza, polizia, dottori e persino l’esercito stanno aiutando le persone che sono ferite e stanno lavorando per assicurare che non si verifichino ulteriori tragedie.
– Fare sapere ai bambini che sentirsi sconvolti è normale. Fare sapere che tutti i sentimenti vanno bene quando avviene una tragedia. Lasciare parlare i bambini dei loro sentimenti e aiutarli a metterli in prospettiva.
– Osservare lo stato emotivo dei bambini. A seconda della loro età è possibile che non esprimano verbalmente le loro preoccupazioni. Cambiamenti nel comportamento, nell’appetito e nel modo di addormentarsi possono indicare un livello di dolore, ansia o disagio.
– Dire ai bambini la verità. Non cercare di fare finta che gli eventi non siano accaduti o che non siano gravi. I bambini sono scaltri. Essi si preoccuperanno di più se ritengono che siete troppo spaventati per dir loro ciò che è accaduto.
– Attenersi ai fatti. Non alleggerire o far congetture su ciò che è accaduto e ciò che potrebbe accadere. Non dilungarsi sulla dimensione o portata della tragedia in particolare con i bambini piccoli.
– Fare in modo che le vostre spiegazioni siano appropriate:
I bambini delle prime classi elementari hanno bisogno di informazioni semplici.
I bambini delle classi elementari superiori e delle prime medie possono aver bisogno di separare la realtà dalla fantasia.
Gli studenti più grandi hanno convinzioni più forti e vogliono aiutare chi è in pericolo.
– Fare in modo che possano esprimere i loro sentimenti di paura ed ansia attraverso ogni canale di comunicazione (parlare, dipingere, scrivere) in modo che il loro malessere sia manifestato
da admin_psyco | Gen 11, 2017 | Scuola e bambini
Nella prassi educativa corrente si sta perdendo di vista il significato del rimprovero. A causa, anche, della visione sempre meno tradizionale della famiglia che si sta cercando di accantonare. Può essere sicuramente vista come qualcosa di positivo, ma non sempre in maniera univoca. Pensate che esercitare il vostro potere di adulti nei confronti dei figli, specie se piccolissimi, sarebbe un abuso?
Ebbene, vi sbagliate. Prendete esempio dai bambini, anche dai primi mesi di vita hanno un’idea ben chiara del potere che hanno e dei metodi a loro disposizione per esercitarlo e, al contrario di voi, non si fanno scrupoli ad usarlo. Proprio questo potere è parte integrante della relazione genitori-figli e imparare a gestirlo diventa fondamentale. Un neonato può esprimere e ottenere ciò che desidera, mostra cioè di possedere la capacità di fare o ottenere qualcosa. Contrariamente alla mamma, però, non ha il potere di prendere decisioni e di metterle in atto. Quella rimane prerogativa del genitore, se ne è in grado, ovviamente.
Non abbiate paura di usare il vostro potere, ma con misura e consapevolezza. È perfino lecito, in un momento di furore, allungare uno sculaccione, ma senza arrivare a questo ci sono molti modi con cui porre limiti al bambino, limiti di cui vi sarà grato perché ne ha bisogno per crescere. Il modo più classico è quello del rimprovero. Il rimprovero è una comunicazione regolativa, non incoraggiante. Deve essere espresso senza enfasi e senza tensione.
Occorre un tono fermo, deciso, autorevole che si esprime in una comunicazione concisa, forte e centrata sui fatti concreti. Al rimprovero deve seguire un breve silenzio, in modo che il messaggio venga assorbito. Ma se da un lato l’educazione di un bambino dipende dalla correzione di comportamenti negativi, dall’altro entrano in gioco aspetti che incoraggiano il comportamento positivo.
Sarà successo anche a voi, da bambini, che vi abbiano detto “sei stato bravo” e di aver provato una sensazione piacevole. Ora, è bene tenere presente che questo è un sentimento che alberga naturalmente nell’animo di un bambino prima ancora che ne afferri il significato logico. Malgrado l’istinto lo spinga a cercare soddisfazione immediata dei suoi impulsi, il bambino desidera comunque accontentare i genitori, vederli sorridere di compiacimento per ciò che ha fatto, felici di lui.
Tuttavia bisogna sapersi contenere, ovvero non cadere nella tentazione di lodarli sempre, minando la loro autostima invece che accrescerla. La lode rischia di trasmettere ai bambini l’idea che siano amati solo quando si comportano in modo consono alle aspettative dei grandi. Può scalfire le motivazioni personali, perché il fare bene una cosa smette di essere un piacere e una soddisfazione di per sé, ma solo un modo per essere apprezzati dall’adulto, col rischio di innescare una sorta di dipendenza dall’approvazione di mamma o papà. Oltre a far sentire i più piccoli sempre sotto giudizio, tanto da renderli insicuri nell’esprimere le proprie idee e scoraggiarli nel mettersi alla prova, perché preoccupati di essere all’altezza della situazione.
Quello del genitore non è, di certo, un lavoro facile, soprattutto se lo si fa per la prima volta. Ma non dovete temere di essere inadeguati, bisogna semplicemente trovare un equilibrio, senza pensarci troppo, in modo naturale e conseguente. E se un giorno vi rendeste conto di aver fatto degli errori, di essere stati troppo severi o, al contrario, troppo transigenti, ricordatevi sempre che nessuno è perfetto, così come non lo eravate voi non lo saranno loro.
E così mentre loro cresceranno imparando dagli errori propri e altrui, voi vi renderete conto che in fondo, i vostri figli, non sono poi così indifesi.
da admin_psyco | Gen 11, 2017 | Disturbi d'ansia e stress
Il conflitto può essere definito come “una situazione in cui forze, di valore approssimativamente uguale ma dirette in senso opposto, agiscono simultaneamente sull’individuo”; o anche “la reciproca interferenza di reazioni incompatibili.”
Il conflitto può far riferimento alla presenza di tendenze coesistenti rivolte ad almeno due forme differenti di comportamento. È possibile distinguere le tendenze appetitive o attrazione ovvero le tendenze rivolte al raggiungimento di un obiettivo, e le tendenze avversative o avversione ovvero quelle rivolte ad evitare eventi indesiderabili. Tali teorie fanno parte della teoria del campo di Lewin.
La teoria del campo applica al comportamento interpersonale e al concetto di personalità i principi gestaltici della percezione. Il concetto di “campo” è inteso quale totalità di fenomeni psicologici che agiscono in reciproca interdipendenza di influssi; l’individui dunque si colloca al centro di un campo di forza ambientali che li modificano e che, grazie a lui, si modificano. Tale teoria ha trovato applicazione proprio nella psicologia sociale, riuscendo a offrire una fortunata ed esauriente spiegazione sulle dinamiche che intercorrono all’interno di un gruppo.
Per Lewin si ha conflitto quando una persona è costretta a scegliere fra obiettivi o corsi d’azione incompatibili, contraddittori o mutatamene esclusivi cioè quando l’azione necessaria a raggiungere l’uno impedisce automaticamente alla persona di raggiungere l’altro.“Una situazione in cui le forze di valore approssimativamente uguale ma dirette in senso opposto, agiscono simultaneamente sull’individuo” .
Secondo la teoria del campo si prospettano 4 possibilità di conflitto:
- Conflitto fra due tendenze appetitive in cui il soggetto di fronte a due obiettivi raggiungibili deve necessariamente sceglierne uno scartando l’altro. Non viene considerato un vero e proprio conflitto, ma piuttosto una condizione di scelta.
- Conflitto fra una tendenza appetitiva e una tendenza avversativa in cui si contrappongono desideri razionali e ostacoli emotivi quindi alcuni elementi spingono in una direzione e altri in quella opposta. Le decisioni risultano difficili poiché si innesca un meccanismo di attrazione e repulsione con momenti alterni di prevalenza dell’uno rispetto all’altro.
- Conflitto fra due tendenze avversative in cui il soggetto è posto di fronte a una scelta riguardo due opportunità negative. Si ha la tendenza a scegliere l’opportunità meno scoraggiante.
- Conflitto composto fra più tendenze appetitive ed avversative(doppia situazione di attrazione – avversione) che si verifica in molte situazioni della vita di tutti i giorni, è il caso in cui oggetti o situazioni evocano contemporaneamente situazioni di avversione e attrazione. Una classica situazione è quella in cui ad un individuo che svolge una determinata attività professionale viene proposta un’altra attività. Entrambe le professioni hanno caratteristiche sia attraenti che negative, se le caratteristiche attraenti o quelle repellenti di ciascun lavoro sono uguali vi sarà una situazione di conflitto.
Spesso a suscitare il conflitto non è un oggetto o un’attività, quanto un modello di comportamento, che si sintetizza, in questo caso, nel concetto di “ruolo”.
Il conflitto nasce quando un individuo viene ad occupare, simultaneamente, due posizioni differenti, che prescrivono atteggiamenti diversi, oppure quando le attese di persone o gruppi diversi, relativi ad una stessa posizione, discordano nettamente.
L’adolescenza è l’es. tipico di conflitto, in quanto il soggetto è già uscito dall’infanzia e non ha ancora raggiunto l’età adulta, si sente attirato dall’idea di essere un adulto indipendente e carico di prestigio, ma anche dal desiderio di restare legato al ruolo del bambino, protetto e sicuro.
Se una persona appartiene allo stesso tempo a due gruppi sociali diversi della stessa categoria (età, nazionalità, razza), gli si presenteranno, in ogni situazione, due tipi diversi di comportamento suggeriti da ognuno dei due gruppi ed il soggetto di troverà in una situazione permanente di conflitto. Questa situazione può essere grave perché non si tratta di un conflitto casuale e passeggero, ma costante per l’individuo, il quale ha interiorizzato due serie di ruoli paralleli per ogni situazione; oppure perché entrambi questi gruppi, di cui fa parte, hanno una grande influenza sulla formazione della personalità.
Ci sono varie possibilità di uscire da questo conflitto:
- con un’intensa valorizzazione della cultura d’origine, che si manifesta con nazionalismo e rifiuto di ogni nuovo ruolo, dovuto spesso ad un’incapacità di adattamento al nuovo gruppo;
- con l’assunzione di un ruolo intermedio che permetta di conciliare le due culture;
- con un buon adattamento alla nuova cultura che va di pari passo con il rifiuto del gruppo d’origine.
L’individuo si perderebbe tra questi conflitti se non avesse, a sua disposizione, dei meccanismi adeguati che gli permettano di risolverli.
A livello personale operano numerosi meccanismi:
- la separazione, che consiste nel tentare di separare, sia nel tempo sia nello spazio, i due ruoli in conflitto, ad es. evitando la sovrapposizione dei ruoli, assumendoli nel tempo e negli spazi separati, il conflitto viene risolto distaccandosi da un ruolo ritenuto riprovevole, quello ritenuto meno importante, ma questa decisione di mettere da parte un ruolo si rivela dannosa per l’individuo, potendo generare dei forti sentimenti di frustrazione;
- il compromesso, consistente nel rimandare l’azione ed attendere che uno dei due gruppi o entrambi attenuino le loro esigenze, oppure ristrutturare il ruolo stesso al fine di adattare questa nuova definizione ad ognuno dei due gruppi, infine un’altra strategia è quella di utilizzare un ruolo contro l’altro, indicando ad ogni gruppo le esigenze incompatibili che gli vengono imposte dall’altro in modo da spingere le due parti ad attenuare le proprie richieste;
- la fuga, consistente nell’uscita del soggetto da entrambi i ruoli, come la fuga dal campo, in cui l’individuo va in un altro ambiente sociale e si allontana dai gruppi che generano conflitto, la fuga nella malattia, che avviene inconsciamente
Molti psicologi sociali ritengono che le persone abbiano un bisogno fondamentale di congruenza cognitiva, ovvero di coerenza logica tra le proprie convinzioni ed idee. Secondo Festinger (1957) quando un individuo ha due rappresentazioni cognitive (idee sul mondo) coerenti l’una con l’altra, egli si trova in uno stato interno di equilibrio, che l’autore chiama di consonanza.
Quando invece due o più rappresentazioni cognitive non sono tra loro coerenti, perché una implica l’opposto dell’altra, si produce dissonanza. Festinger sosteneva che esiste una motivazione fondamentale che spinge l’individuo a ridurre gli stati di dissonanza, che sarebbero per natura destabilizzanti.
Più la rappresentazione cognitiva è importante e più la dissonanza è destabilizzante. E più è critica la dissonanza più è forte la motivazione dell’individuo a ridurla. Quello della dissonanza cognitiva è uno dei concetti elaborato da Festinger definendola come la condizione di individui le cui credenze, nozioni, opinioni contrastano tra loro (dissonanza per “incoerenze logica”), o con le tendenze del comportamento (“dissonanza per “l’esperienza passata”), o con l’ambiente in cui l’individuo si trova ad operare (dissonanza per “costumi culturali”).