Disturbi del comportamento alimentare (DCA)

Disturbi del comportamento alimentare (DCA)

La “normalità” nell’atto del mangiare e nel modo di alimentarsi è costituita da una notevole varietà di “tipologie alimentari” che si manifestano a partire dall’infanzia, passando per l’adolescenza fino all’età adulta; la maggior parte di queste non costituiscono un disturbo alimentare ma solo alcuni tipi di alimentazione divengono e sono realmente problematici, poiché espressione di un disturbo psicopatologico vero e proprio.

Ciò che accomuna tutti i DCA è un’alterazione dell’immagine corporea, alterazione che può manifestarsi con carattere e gravità diversi fino ad un vero e proprio disturbo delirante del pensiero. L’immagine corporea coinvolge la nostra percezione, l’immaginazione, le emozioni e le sensazioni fisiche riguardo al nostro corpo. È una condizione sensibile ai mutamenti psicologici, alle esperienze corporee e all’ambiente fisico ed emotivo che ci circonda.

I disturbi alimentari principali sono l’Anoressia Nervosa e la Bulimia Nervosa.

Con Anoressia Nervosa (AN) si intende una patologia molto grave che si manifesta per lo più nel mondo adolescenziale. Anoressia vuol significare perdita o diminuzione dell’appetito. Ciò che più caratterizza l’AN sul piano diagnostico, in realtà, è una ricerca spasmodica della magrezza in rapporto ad una opprimente paura di ingrassare.

L’anoressia è spesso associata ad altri disturbi alimentari, quali la bulimia e i comportamenti compulsivi. L’anoressia mentale dell’adolescente si configura nell’associazione con la crisi, o turmoil emotivo,che emerge in questa fase della vita sia in relazione all’accettazione dei cambiamenti del proprio corpo, vissuto come ingombrante e senza controllo, sia in rapporto alla conflittualità delle relazioni affettive con i genitori. Le persone che soffrono di anoressia vanno alla ricerca di una magrezza mai sufficiente. Forte è il legame con tratti della personalità di tipo narcisistico, dove il corpo e il cibo si caricano di valenze magiche e immaginarie. Attraverso il cibo e il controllo esercitato sul corpo, si cerca di controllare in modo “magico” tutto il mondo interno ed esterno, sentito e vissuto come difficile e ostile.

Con Bulimia Nervosa (BN) si intende una patologia molto grave, che si distingue dall’AN per la presenza di abbuffate e comportamenti compensatori, quali diuretici, lassativi, vomito autoindotto, esercizio fisico, a fronte di un peso relativamente normale.

Si tratta di un impulso irresistibile verso il cibo, a cui il soggetto risponde assumendone in modo vorace una grande quantità in breve tempo. Di frequente, dopo l’abbuffata si presentano disturbi dell’umore, in particolare depressione, sentimenti di colpa e autosvalutazione. Oggi la bulimia sembra essere un problema sempre più comune. Il rischio ha una percentuale molto elevata su una fascia di età molto più estesa rispetto al passato, colpendo tuttavia soprattutto gli adolescenti e le donne. In ambito psichiatrico si è constatata la frequente associazione tra bulimia e stati depressivi e/o ansiosi, per cui il cibo diventa capace di riempire il vuoto esistenziale o di placare in qualche modo l’angoscia di vivere. Il cibo, per chi soffre di bulimia nervosa, rappresenta un modo per compensare le frustrazioni, la solitudine, la delusione. Le relazioni affettive e sessuali sono vissute come qualcosa di intimamente collegato al cibo ed è attraverso il cibo che si cerca di gestire e rispondere alle emozioni da esse scatenate.

Il bullismo

Il bullismo

La definizione di bullo in Italia ha un’accezione che stempera la gravità della violenza che vuole denunciare. Il bullo, nel senso comune, è il gradasso, quello che si dà delle arie, ma che non necessariamente prevarica gli altri, anzi spesso il temine bullo o bulletto ha un’accezione positiva, di affettuosa presa in giro.

È però necessario comprendere il problema: il bullo è un ragazzo o una ragazza che compie degli atti di prepotenza verso un proprio pari, prepotenze che non sono occasionali, ma si ripetono nel tempo, configurandosi come una vera e propria persecuzione.

È possibile individuare alcune caratteristiche distintive del bullismo: l’intenzionalità (mira deliberatamente a colpire, offendere, arrecare danno o disagio); la persistenza nel tempo, l’asimmetria di potere ( nella relazione il bullo è più forte e la vittima più debole e spesso incapace di difendersi).

È possibile distinguere due tipologie di bullo:

  • il bullo dominante caratterizzato da una aggressività generalizzata sia verso gli adulti sia verso i coetanei, scarsa empatia, impulsività, si arrabbia facilmente, ha un atteggiamento positivo verso la violenza, poiché è ritenuta uno strumento valido per raggiungere i propri obiettivi. Si tratta di bambini sicuri di sé, con elevate abilità sociali, capaci di istigare gli altri. Il bullo, sempre alla ricerca di emozioni forti, deumanizza la vittima al fine di giustificare le sue forme di aggressività e di violenza e stabilisce con gli altri rapporti interpersonali improntati quasi sempre sulla prevaricazione
  • il bullo gregario che è più ansioso, insicuro, poco popolare, cerca la propria identità e l’affermazione nel gruppo attraverso il ruolo di aiutante o sostenitore del bullo

La vittima generalmente ha una scarsa autostima, un’ opinione negativa di sé. Di fronte a un attacco reagiscono chiudendosi in se stessi. Per le vittime si evidenziano deficit nel riconoscimento di specifici segnali emotivi, in particolare relativi alla rabbia.

Essere vittima di bullismo, nel corso del tempo, può rappresentare un fattore di rischio. La vittima può andare incontro a livelli di autostima sempre più bassi, a forme di depressione, autolesionismo e in estremo il suicidio.
Le cause possono essere riconducibili non sono a fattori personali e al contesto culturale ma anche al contesto familiare.

Proprio per quanto riguarda il contesto familiare da molteplici ricerche è emerso che i bambini con uno stile di attaccamento insicuro-evitante esibiscono con più probabilità comportamenti di attacco e prepotenza verso i compagni, mentre i bambini con attaccamento insicuro-resistente assumono con più probabilità il ruolo di vittime.
Il gruppo ha un ruolo molto importante nel fenomeno del bullismo.

Alcuni compagni svolgono un ruolo di rinforzo, altri formano un pubblico che sostiene e incita, altri ancora si disinteressano del tutto, ma ci sono anche altri che invece assumono una posizione protettiva nei confronti della vittima. Il bullismo è una modalità proattiva, è un comportamento messo in atto senza alcuna provocazione da parte della vittima ed è agito dall’aggressore al fine di raggiungere il suo scopo e il potere sugli altri. Il bullo è in grado di affermarsi nel gruppo soltanto attraverso l’uso deliberato della forza.

Il bullismo dunque si configura come un fenomeno collettivo che coinvolge l’intero gruppo, il quale può sostenere e rinforzare il fenomeno.

Un ruolo importante ed educativo può fornirlo la scuola, aiutando il bambino ad avere una buona sicurezza, la quale si rinforza e si costruisce in un contesto relazionale che offre l’opportunità di esprimere se stessi e le proprie capacità. La valorizzazione aiuta il bambino ad avere fiducia in se stesso.

È importante osservare e lavorare il prima possibile su comportamenti aggressivi, intervenire in modo tempestivo in modo da poter modulare ed esplorare tali atti aggressivi.

Ansia e stress: cosa sono e come curarli

Ansia e stress: cosa sono e come curarli

Ansia

Per ansia oggi si intende l’anticipazione apprensiva di un pericolo o di un evento negativo futuro, accompagnata da sentimenti di disforia e da sintomi fisici di tensione.

Nella società moderna l’ansia è parte integrante delle nostre vite. Ogni giorno affrontiamo nuovi rischi, pericoli e malattie, per non parlare dei problemi economici che gravano sulle famiglie e sulle nuove generazioni.

In un sistema che si evolve tanto rapidamente le aspettative che gravano sui singoli individui possono essere difficili da gestire, e possono, dunque, provocare ansia.

Tuttavia l’ansia non deve sempre essere considerata come qualcosa di anormale, bensì come un’emozione basilare che attiva l’organismo in risposta ad una situazione che viene soggettivamente percepita come pericolosa.

L’ansia si traduce, dunque, in un’esplorazione dell’ambiente alla ricerca di soluzioni, nonché in una serie di risposte neurovegetative come l’aumento del battito cardiaco, della sudorazione e della frequenza respiratoria. Tali risposte avvengono nel momento in cui l’organismo suppone di aver bisogno del massimo della forza e dell’energia per poter rispondere alla situazione considerata di pericolo. È chiaro, quindi, come l’ansia possa rivelarsi un’importante risorsa.

Diviene invece un disturbo emotivo spiacevole quando lo stato di allarme e paura è “esagerato” rispetto ai reali pericoli o se i pericoli non ci sono affatto. In questo caso l’ansia non è adattiva, ma diventa un problema che può rendere la persona incapace di controllare le proprie emozioni e di affrontare anche le situazioni più semplici. L’ansia è un’emozione che può aumentare a seguito di eventi dolorosi o conflitti. Possiamo cercare di eluderla attraverso i nostri comportamenti, minimizzandola per non esserne sopraffatti. Tuttavia una forte ansia può essere estenuante e provocare sfinimento. L’ansia può, quindi, essere distinta in ansia “buona” e ansia “cattiva”.

L’accezione positiva si riferisce all’ansia come sempre presente, anche se in maniera più o meno sfumata, nella nostra vita quotidiana, che si fa sentire in maniera più o meno lieve per avvertirci che qualcosa non va in svariate situazioni. L’esperienza ansiosa è, quindi, normale e funzionale quando si presenta come una reazione d’allarme diretta contro uno stimolo reale e conosciuto; questo tipo di reazione provoca uno stato di tensione psicologica che attiva le risorse dell’individuo e potenzia le sue capacità operative finalizzate alla risoluzione del problema. Inoltre, una quota d’ansia limitata può essere incanalata in attività socialmente accettate, come attività artistiche, intellettuali e sociali, e rappresentare per l’individuo una fonte di curiosità e anche di creatività.

L’accezione negativa, invece, pone l’enfasi sulla patologia, in particolare nei casi in cui l’individuo non riesce a trovare soluzioni adattive per fronteggiare situazioni sconosciute o potenzialmente pericolose, in quei casi l’ansia può perdere le sue caratteristiche funzionali. Esistono due condizioni in cui l’ansia diventa patologica:

– Quando la risposta ansiosa è esagerata e disfunzionale rispetto agli stimoli che l’hanno indotta e l’individuo ne è consapevole. Lo stato ansioso si manifesta in maniera costante, disturbando il paziente durante tutto l’arco della giornata con i sintomi già descritti, non è gestibile con il ragionamento nonostante la persona riconosca la natura esagerata della sua reazione.

– Quando lo stato ansioso compare in assenza di uno stimolo scatenante. Lo stato ansioso compare in modo acuto ed è caratterizzato da sensazione di soffocamento, sensazione di sbandamento, paura di morire o di perdere il controllo (attacco di panico). Questi fenomeni sono generalmente ricorrenti, di breve durata, e possono essere inattesi e condizionare la vita dell’individuo per questa loro imprevedibilità.

Quando l’ansia diviene patologica, provoca distorsioni cognitive, come idee ossessive, aspettative catastrofiche ed errori di attribuzione e causa la sovrastimolazione del sistema nervoso e degli organi ad esso collegati. Assume inoltre caratteristiche autoinvalidanti, tramite le quali l’individuo perpetua comportamenti disadattivi per lunghi periodi di tempo, spesso giudicati dal soggetto stesso come irrazionali e inadeguati.

Classificazione dei disturbi d’ansia

La categoria dei disturbi d’ansia comprende una varietà di disturbi diversi fra loro. Si possono quindi distinguere due tipi di ansia principali:

– L’ansia di stato è concettualizzata come uno stato emozionale caratterizzato da sentimenti soggettivi percepiti a livello cosciente di tensione ed apprensione, e dall’aumentata attività del sistema nervoso autonomo. Può variare nel tempo e fluttuare nel tempo”

– L’ansia di tratto, invece si riferisce alle differenze individuali relativamente stabili, nella disposizione verso l’ansia, cioè a differenze tra le persone nella tendenza a rispondere con elevazioni dell’intensità dell’ansia di stato a situazioni percepite come minacciose.

Secondo il DSM V (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) distingue i seguenti disturbi d’ansia:

Disturbo d’ansia da separazione

https://it.wikipedia.org/wiki/Disturbo_d%27ansia_da_separazione

Il disturbo d’ansia da separazione è definita dall’APA (associazione psicologi americani) come la manifestazione inappropriata ed eccessiva di paura e malessere al momento di separarsi da casa o da una specifica figura di riferimento. L’ansia espressa è classificata come atipica rispetto al livello di sviluppo atteso e all’età del soggetto. La gravità dei sintomi varia dal disagio preventivo a veri e propri attacchi di ansia al momento (o anche solo al pensiero) della separazione.

Mutismo selettivo

https://it.wikipedia.org/wiki/Mutismo#Mutismo_selettivo

Il mutismo selettivo è un disturbo dell’infanzia, della fanciullezza e dell’adolescenza e caratterizzato da una persistente incapacità di parlare in certi contesti (per esempio all’asilo o a scuola) nonostante la capacità di parlare in altri contesti sia preservata (per esempio a casa con i genitori). In alcuni casi più gravi il mutismo persiste anche nell’ambiente familiare anche se questi casi sono rari. Esistono molti centri di diagnosi. Colpisce prevalentemente le bambine e si manifesta o all’ingresso della scuola materna o della scuola primaria.

Fobia Specifica

https://it.wikipedia.org/wiki/Fobia_specifica

Una fobia specifica, chiamata anche fobia semplice, è un termine generico per qualsiasi tipo di disturbo caratterizzato da una irrazionale e fortissima risposta di paura in coincidenza con l’esposizione a specifici oggetti o situazioni, nonché una tendenza ad evitare ostinatamente e sistematicamente gli oggetti o le situazioni temute. Il soggetto che ne soffre talvolta non è in grado di rappresentarsi e immaginare le situazioni o le cose temute se non per pochi attimi e può temere anche di nominarle. La paura può essere attivata sia dalla presenza che da tracce che anticipano la presenza dell’oggetto o della situazione che crea disagio.

Disturbo d’ansia sociale

https://it.wikipedia.org/wiki/Fobia_sociale

La fobia sociale è la paura intensa e pervasiva di trovarsi in una particolare situazione sociale, o di eseguire un tipo di prestazione, che non siano, a chi ne è affetto, familiari e da cui possa derivare la possibilità di subire un giudizio altrui. Si tratta di un particolare stato ansioso nel quale il contatto con gli altri è segnato dalla paura di essere malgiudicati e dalla paura di comportarsi in maniera imbarazzante ed umiliante. Le persone affette da questa fobia evitano situazioni spiacevoli, o se sono costrette ad affrontarle sono molto a disagio con loro stesse.

Disturbo di panico

https://it.wikipedia.org/wiki/Attacco_di_panico

Gli attacchi di panico o disturbo da panico sono una classe di disturbi d’ansia, a loro volta i più comuni disturbi psichiatrici, che costituiscono un fenomeno sintomatologico complesso e piuttosto diffuso. Il disturbo di solito esordisce nella tarda adolescenza o nella prima età adulta ed ha un’incidenza da due a tre volte maggiore nelle donne rispetto agli uomini. Tuttavia, spesso non vengono riconosciuti e di conseguenza non vengono curati. Tra i sintomi principali troviamo: l’accelerazione del battito cardiaco, sudorazione, tremore, vertigini, senso di morte imminente, nausea ecc. La maggior parte delle persone guarisce senza terapia specifica, mentre una rilevante minoranza sviluppa invece un disturbo da recidiva di attacchi di panico.

Agorafobia

https://it.wikipedia.org/wiki/Agorafobia

L’agorafobia è la sensazione di paura o grave disagio che un soggetto prova quando si ritrova in ambienti non familiari o comunque in ampi spazi all’aperto, temendo di non riuscire a controllare la situazione che lo porta a desiderare una via di fuga immediata verso un luogo da lui reputato più sicuro.

Disturbo d’ansia generalizzato

Il soggetto che soffre di Disturbo D’ansia Generalizzato prova un’ansia e una preoccupazione molto elevate, che occupano la maggior parte del suo tempo (durata almeno 6 mesi) e invadono la sua area lavorativa, sociale, affettiva ecc. A differenza di altri disturbi la cui ansia è legata ad un determinato oggetto e/o situazione, qui l’oggetto manca ma sussistono tutti i sintomi fisici tipici dell’ansia

Disturbo d’ansia da condizione medica

http://medicinasiena.it/DSM%20-%20IV/classi/classe06/frte11.htm

La caratteristica essenziale di un Disturbo d’Ansia dovuto ad una Condizione Medica Generale è un’ansia clinicamente significativa che si ritiene dovuta agli effetti fisiologici diretti di una condizione medica generale. I sintomi possono includere sintomi di ansia generalizzata prominenti, Attacchi di Panico oppure ossessioni o compulsioni (Criterio A). Deve esservi evidenza dall’anamnesi, dall’esame obbiettivo dai dati di laboratorio che il disturbo è la conseguenza fisiologica diretta di una condizione medica generale (Criterio B). Il disturbo non risulta meglio giustificato da un altro disturbo mentale, come un Disturbo dell’Adattamento, con Ansia, nel quale l’evento stressante sia rappresentato dalla condizione medica generale (Criterio C). Non si pone la diagnosi se i sintomi di ansia si manifestano solo durante il corso di un delirium (Criterio D). I sintomi di ansia devono causare disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti (Criterio E).

Altro disturbo d’ansia specifico

DSM V

Questa categoria si riferisce a quelle condizioni in cui sono presenti i sintomi caratteristici di un disturbo d’ansia che causano un disagio clinicamente significativo o ansia sociale, lavorativa o altre importanti aree di funzionamento predominante ma che non soddisfano totalmente nessuno dei disturbi d’ansia diagnosticabili. Questa categoria viene ripotata dal clinico con “altro disturbo d’ansia specifico” seguito dalla ragione che ha portato al disturbo.

Disturbo d’ansia non altrimenti specificato

http://www.my-personaltrainer.it/salute/disturbo-ansia.html#4

Vengono inclusi in questo gruppo quei disturbi d’ansia o di evitamento fobico significativi che non rientrano nei criteri di nessuno specifico disturbo d’ansia trattato precedentemente. Un esempio è quello del disturbo ansioso-depressivo misto, caratterizzato da una condizione psichica spiacevole con tristezza, ansia ed irritabilità (umore disforico), che si protrae per almeno un mese, associata a difficoltà di concentrazione, senso di vuoto, alterazioni del sonno, sensazione di affaticamento o scarsa energia, ipervigilanza, preoccupazione, facilità al pianto, tendenza a previsioni negative per il futuro, disperazione, scarsa autostima o sentimenti di disprezzo per sé stessi. Piuttosto comune è anche l’associazione, a questi sintomi, di disturbi gastrointestinali.

Cura

– Le psicoterapie per la cura dell’ansia

Trattamenti psicoanalitici

Per quanto riguarda l’ansia, l’approccio psicoanalitico considera il sintomo non come una malattia ma come una manifestazione esterna risultante da una varietà di fattori che, nell’arco della vita del soggetto, hanno contribuito alla formazione di conflitti e difetti. Nell’ambito della relazione terapeutica il soggetto ansioso può arrivare a comprendere il significato di stati d’animo e comportamenti apparentemente incomprensibili e acquisire consapevolezza dei vantaggi secondari che trae dal suo malessere. Una volta raggiunto un maggior grado di coscienza delle proprie dinamiche interne, può essere utile, per il soggetto ansioso, ricercare delle vie di sublimazione dei propri impulsi che gli consentano di incanalare parte della tensione emotiva in attività e interessi da cui trarre gratificazione.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale

La cura dell’ansia nell’ambito delle psicoterapie cognitivo-comportamentali significa eliminazione o riduzione del sintomo e raggiungimento di un adeguato adattamento dell’individuo all’ambiente utilizzando tecniche comportamentali (come per esempio l’esposizione graduale alla situazione ansiogena) e tecniche di ristrutturazione cognitiva. La terapia di basa sulla costruzione e sul mantenimento di una relazione di fiducia tra paziente e terapeuta in modo da evidenziare al suo interno le stesse emozioni sperimentate e gli stessi schemi disfunzionali applicati nella realtà esterna, come ad esempio, la paura del giudizio altrui ed i conseguenti comportamenti di evitamento. Dopodichè il paziente viene aiutate a controllare i propri stati emotivi e a migliorare le sue capacità di autoaffermazione e le attitudini sociali in modo, così, da poter modificare gli schemi mentali che sono alla base della sintomatologia.

La psicoterapia interpersonale

La psicoterapia interpersonale per la cura dell’ansia si attua lungo un programma terapeutico di breve durata (tra le dodici e le sedici sedute rinnovabili) e si fonda su alcuni principi fondamentali. La spiegazione dei fattori che sono alla base della formazione del carattere ansioso ed al loro riconoscimento da parte del soggetto, successivamente viene esaminato ciò che collega l’insorgere dell’ansia agli eventi vissuti quotidianamente e gli eventi che abitualmente amplificano lo stato ansioso. Spetterà poi al terapeuta aiutare il paziente ad acquisire o migliorare le capacità di gestione della propria ansia e le capacità di autoaffermazione.

La psicoterapia integrata

È un metodo psicoterapeutico proposto da Leigh McCulloug Vaillant, psicologa e direttrice del Programma di Ricerca sulla Psicoterapia della facoltà di medicina di Harvard. Tale tipo di terapia viene praticato anche in Italia. E’ l’approccio comunemente utilizzato, in associazione con tecniche connesse alla psicoterapia interpersonale, al training autogeno e alla meditazione. Questo tipo di psicoterapia, definita integrata poiché basata sulla combinazione di un approccio psicoanalitico e di un approccio psicoeducativo di tipo cognitivo-comportamentale, ha lo scopo di promuovere nel paziente un cambiamento dei tratti disfunzionali del suo carattere. Avendo come obiettivo la cura dell’ansia, per sostenere il paziente nel superamento delle proprie resistenze e nella comprensione e conseguente modifica dei propri meccanismi di difesa e di coping.

La psicoterapia familiare o sistemica per la cura dell’ansia

Nei casi in cui l’aiuto terapeutico per la cura dell’ansia venga richiesto non individualmente bensì da un nucleo familiare, può essere utile il ricorso ad un approccio sistemico, che individua la famiglia come un sistema da cui dipendono gli equilibri che in essa si generano e si mantengono. Secondo questo approccio, l’individuo non può essere isolato dal suo contesto di vita, nell’ambito del quale sviluppa necessariamente diversi tipi di interazioni e relazioni che si ripercuotono su tutti i componenti del gruppo. Se uno o più membri della famiglia sono soggetti ansiosi, l’equilibrio di tutto il sistema familiare può essere influenzato negativamente da specifici processi comunicativi di natura principalmente ansiosa che, stabilendosi nel tempo, possono cristallizzarsi in modalità di funzionamento rigide e poco funzionali a tutti i componenti del gruppo familiare. Un intervento di tipo sistemico per la cura dell’ansia può, in questi casi, rendere manifesti questi processi ed innescare la realizzazione di nuovi equilibri che consentano, sia all’intero gruppo sia ai singoli membri, di migliorare le capacità di adattamento ed affrontare con maggiore flessibilità gli eventi della vita.

Lo Stress

In molti soggetti, l’ansia viene vissuta più come una caratteristica del proprio modo di essere piuttosto che come una patologia. Solo quando, l’ansia supera quel limite oltre il quale le condizioni generali di vita divengono invalidanti, diviene necessaria la richiesta di aiuto. Una persona stressata, è una persona caratterizzata da molte crisi ansiose, l’ansia si può, quindi, definire come un sintomo dello stress. Si parla molto di questo argomento, tutti lo conoscono come un senso di tensione, preoccupazione e malessere diffuso, ma si tratta di un concetto assai più vasto.

La letteratura documenta che lo stress è implicato, mediante diversi meccanismi fisio-patologici e psico-relazionali, nella patogenesi di numerosissime disfunzioni e patologie acute e croniche. Gli apparati maggiormente colpiti sono quello cardiovascolare, gastrointestinale, neuropsichico, cutaneo, endocrino, metabolico e immunologico. Lo stress promuove anche la degenerazione neoplastica cellulare oltre ad avere conseguenze negative sulle relazioni familiari e sociali.

Il concetto di stress è nato centinaia di anni fa, ma la psicologia ha iniziato ad usarlo per la prima volta nel 1932 da Cannon come sinonimo di stimolo nocivo. Successivamente Selye (1936) concettualizza lo stress come un insieme di reazioni difensive di natura fisiologica e psicologica attuate per far fronte ad una minaccia o ad una sfida. Selye fu il primo ad aver riconosciuto che lo stress non è una condizione necessariamente patologica e negativa, ma una reazione in primo luogo adattativa, in quanto finalizzata a ristabilire o a mantenere l’equilibrio omeostatico. Tuttavia in determinate condizioni, le sollecitazioni che generano stress possono divenire eccessive fino al punto di non essere più sopportabili dalla persona, con conseguenze negative anche assai gravi per la salute dell’individuo. Pertanto, se da un lato non è possibile evitare lo stress, è però anche indispensabile cercare di fare in modo che le condizioni esterne non presentino fattori stressanti importanti.

Lo stress perciò si manifesta quando l’organismo deve rispondere a tali stimoli esterni. Questa risposta consiste in un’attivazione di sistemi biologici che permettono di affrontare e risolvere la situazione in modo tale da evitare possibili conseguenze negative e permettere l’adattamento nel caso in cui non sia possibile risolvere la situazione stressante. Distinguiamo pertanto uno stress positivo chiamato eustress, che ci rende capaci di adattarci positivamente alle situazioni, e uno stress negativo, chiamato distress quando la situazione stressante richiede uno sforzo di adattamento superiore alle nostre possibilità instaurando così un logorio progressivo che porta al deterioramento delle nostre difese psicofisiche.

Già nel 1984, gli studiosi Lazarus e Folkman intervennero nell’argomento introducendo il termine di stress psicologico come la condizione derivante dall’interazione di variabili ambientali e individuali, che vengono mediate da variabili di tipo cognitivo. Lo stress viene, quindi, concettualizzato come qualcosa di dinamico, a carattere relazionale. Con tale concetto si sottolinea la componente soggettiva dell’evento stressante, ovvero che l’elemento fondamentale che determina l’entità della reazione emozionale-fisiologica è la valutazione cognitiva che l’individuo compie del suddetto evento stressante. In altre parole, nessun evento esistenziale significativo può essere considerato aprioristicamente patogenetico e, allo stesso tempo, ogni evento suscettibile di produrre una reazione emozionale potrebbe essere definito come avvenimento stressante. Quindi gli eventi sono stressanti nella misura in cui sono percepiti come stressanti, per cui uno stimolo produrrà o meno una reazione distress a seconda di come viene interpretato e valutato. Tuttavia la portata stressogena di un evento è determinata, oltre che dalla valutazione cognitiva dello stimolo compiuta dall’individuo, anche dalle caratteristiche oggettive dello stimolo, ovvero dalla qualità dell’evento e dalla sua quantità.

La sindrome generale di adattamento

Lo stress può essere visto come una reazione da parte del nostro corpo a un cambiamento: ogni giorno subiamo dello stress, ma per fortuna la maggior parte di questo è positivo e ci serve per migliorare la nostra esistenza e la nostra condizione sia fisica che mentale.

Quando però lo stress diventa troppo forte e perdura per troppo tempo può diventare causa di moltissimi problemi sia a livello mentale, sia a livello fisiologico del nostro corpo.

Le ricerche di Selye e di altri scienziati hanno chiarito la complessa fisiologia delle tre fasi della sindrome generale di adattamento.

Gli stimoli esterni a cui siamo esposti quotidianamente sono molteplici, ed in base ad essi il nostro organismo risponderà di conseguenza. In particolare possiamo distinguere:

– stress acuto: quando gli eventi stressanti si presentano in modo acuto e la risposta dell’organismo si esaurisce nel giro di pochi minuti o di ore;

– stress cronico: quando gli eventi stressanti si protraggono per giorni, settimane, mesi e la risposta dell’organismo si protrae nel tempo.

Quando parliamo di stress cronico parliamo di problemi che possono risultare molto seri per la salute della persone ed è giusto sapere quali meccanismi vengano innescati quando ci troviamo di fronte ad uno stressor. Selye distinse 3 fasi della sindrome generale di adattamento:

– Fase di allarme: In questa prima fase il corpo si impegna totalmente a richiamare tutte le forze e le energie per far fronte allo stressor nel migliore dei modi. La principale reazione interna è la produzione di adrenalina (catecolamine) con conseguente aumento del battito cardiaco: il corpo si prepara alla classica risposta “combatti o fuggi”, dominata dal nostro istinto di sopravvivenza.

– Resistenza o adattamento: Questo è il momento più importante, nel quale il nostro organismo si adegua alle nuove circostanza e cerca di resistere finché l’elemento stressante non scompare. In questa fase di resistenza abbiamo la sovrapproduzione di cortisolo che causa un indebolimento delle difese immunitarie, arrivando fino alla loro soppressione: questo inizialmente non causa problemi, ma nel lungo periodo con uno stress cronico rende molto più probabile l’attecchimento di molte malattie virali, batteriche e si pensa anche autoimmuni come l’artrite reumatoide o la sclerosi multipla.

– Esaurimento: questa è la fase conclusiva dello stress che assicura al corpo il riposo necessario per rimettersi completamente; in genere comincia quando l’organismo percepisce il pericolo come finito o quando le energie cominciano a venir meno.

Quando la fase di resistenza termina, si possono presentare due casi:

– le energie non sono esaurite del tutto e la persona avverte la fase di esaurimento come un torpore benefico rilassante, con una sensibile sensazione di debolezza e lassità (come dopo una competizione o un rapporto sessuale)

– la fase di resistenza è durata troppo e l’esaurimento è dovuto alla completa mancanza di energie, con periodi di recupero lunghi e debilitanti (anche depressivi)

Biochimicamente parlando abbiamo un calo repentino degli ormoni surrenalici (adrenalina, noradrenalina e cortisolo) e la rapida diminuzione delle riserve energetiche. In sostanza ci troviamo davanti a un’azione depressiva contraria a quella da resistenza che tenderà a riportare il corpo nella condizione precedente allo stress e quindi in equilibrio. Importante ricordare che molte volte quando il soggetto diventa stress-dipendente, arrivando a vivere fasi di resistenza prolungatissime, può sentire la necessità impellente di utilizzare sedativi, alcool, fumo e altri mezzi per passare artificialmente alla fase di esaurimento e permettere al proprio corpo di riposarsi.

Stress lavorativo

Per quanto riguarda lo stress lavorativo, in Italia sono stati fatti passi avanti sul riconoscimento delle problematiche connesse a questo ambito. Sono state riconosciute dal Piano Sanitario Nazionale 2003-2005 le patologie da fattori psico-sociali associate a stress e gli effetti sulla salute dei fattori organizzativi del lavoro. Inoltre il D.Lgs. n. 81/2008 ha sancito la regolamentazione della sicurezza sul lavoro includendo anche quella relativa allo stress lavoro-correlato.

Lo stress sul lavoro può colpire chiunque a qualsiasi livello e di qualsiasi mansione, tuttavia per poter individuare chi ne è interessato è necessario tener conto delle diverse caratteristiche dei lavoratori. Inoltre non tutte le manifestazioni di stress sono imputabili al solo ambito lavorativo, bensì possono essere state portate da problematiche esterne.

Come è stato detto in precedenza, lo stress è legato alla patogenesi di numerosissime disfunzioni e patologie, influendo quindi sulla salute del lavoratore e provocando, da parte sua, assenteismo, problemi di condotta, violenza di natura psicologica, riduzione della produttività, errori e infortuni, aumento dei costi d’indennizzo o delle spese mediche ecc. Tutto questo rende evidente come il problema dello stress lavoro correlato sia importante non solo per la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore, ma anche per la tutela dell’azienda.

Lo stress lavorativo è dato dall’insieme di vari fattori quali le condizioni lavorative (ambiente, orari, responsabilità ecc.) e le caratteristiche psico-fisiche (personalità, salute, motivazione ecc.) e socio-demografiche (condizioni economiche, situazione familiare ecc.) del lavoratore. Quando l’interazione tra questi fattori è squilibrata, si genera la cosiddetta condizione di “strain” che può manifestarsi in diversi modi variamente associati tra loro cioè con sintomi e segni fisici, mentali, emozionali e comportamentali.

Quindi il soggetto potrebbe ritrovarsi a soffrire di condizioni quali mal di testa, stanchezza, senso di tristezza, abuso di alcol, conflitti familiare ecc. Si può dire che sotto al concetto di rischio stress lavoro-correlato facciano parte una serie di elementi di natura soggettiva, ovvero relativi a come il soggetto interpreta e reagisce alle situazioni, ma anche di elementi oggettivi relativi cioè alla mansione specifica che il lavoratore svolge ed infine elementi relativi al clima aziendale.

L’analisi del rischio si basa sulla rilevazione dei diversi elementi e indicatori in grado di fornire informazioni utili sui diversi aspetti del problema. È importante perciò un’attenta analisi delle condizioni di lavoro, per la quale si possono utilizzare tecniche di job analysis e check list basate su modelli osservazionali e su riscontri oggettivi (ad es. organigramma e funzionigramma, orari, carichi di lavoro, procedure operative, condizioni ambientali, contesto esterno, gestione del personale, ecc.). E altrettanto importante rilevare la percezione soggettiva dei lavoratori, mediante interviste strutturate o semistrutturate e compilazione di questionari.

Le tipologie di problemi stress correlati sono fondamentalmente 3: lo stress strain, il burnout e il mobbing.

Stress Strain

Lo stress strain è caratterizzato dal fatto che il soggetto non riesce più a svolgere la propria attività lavorativa ed ha difficoltà a svolgere gli impegni quotidiani. Il soggetto è consapevole che la situazione potrebbe sfuggire dal proprio controllo, ed è proprio questa sua consapevolezza ad aumentare il disagio che aggrava ulteriormente la sua situazione personale negli ambiti lavorativi e familiari dai quali tende ad isolarsi.

Burnout

Il termine burnout si traduce letteralmente “bruciarsi”, inteso come “esaurito”. La sindrome da burnout si riferisce infatti ad una condizione di esaurimento emotivo causato dallo stress e dovuto alle condizioni lavorative ed altri aspetti della vita. Si tratta di una tipologia specifica di disagio psicofisico che colpisce in misura prevalente coloro che svolgono le cosiddette professioni d’aiuto ma anche coloro che pur avendo obiettivi lavorativi diversi dall’assistenza, entrano continuamente in contatto con persone che vivono stati di disagio o sofferenza, in particolare coloro che operano in ambiti sociali e sanitari come medici, psicologi, assistenti sociali, esperti di orientamento al lavoro, fisioterapeuti, operatori dell’assistenza sociale e sanitaria, infermieri e operatori del volontariato. Nella letteratura sono stati descritti 3 gruppi di sintomi quali psichici (esaurimento emotivo, Collasso della motivazione, caduta dell’autostima ecc.), comportamentali (progressivo ritiro dalla realtà lavorativa, difficoltà a scherzare sul lavoro, perdita dell’autocontrollo ecc.) e fisici (disfunzioni gastrointestinali, insonnia, disturbi dell’appetito ecc.). Chi vive questa condizione manifesta disaffezione al proprio lavoro, delusione, intolleranza, indifferenza, spesso associate anche a sensi di colpa.

Mobbing

Il mobbing consiste in violenze morali e psicologiche reiterate nel tempo, causa d’elevato potenziale stressogeno che limita la qualità della vita del soggetto mobbizzato. Le azioni avversative sono quindi costituite da attacchi alla persona e alla situazione di lavoro, cioè alla professionalità e allo sviluppo di carriera. Gli attacchi alla persona, che diviene la vittima, consistono in comportamenti di esclusione, isolamento, emarginazione o anche offese, minacce di violenza, ridicolizzazione, istigazioni contro la persona da parte di altri ecc. Gli attacchi alla situazione di lavoro sono rappresentati invece da, dequalificazione, assegnazione di attività incompatibili con il background professionale o culturale del dipendente, critiche continue, riduzione dei compiti e delle responsabilità del lavoratore o anche sovraccarichi di lavoro con scadenze impossibili da rispettare, trasferimenti ecc. Il mobbing, soprattutto se vissuto a lungo, comporta in moltissimi casi alterazioni della qualità della vita. La vittima tende a ritirarsi dal proprio ambiente di vita, diminuendo i propri interessi perché prova imbarazzo e vergogna della situazione che vive. Questo comportamento è indice del disagio psicofisico della persona che può sfociare, in alcuni casi, in una condizione clinica con conseguente danno alla salute. Il medico del lavoro dovrà pertanto raccogliere nel migliore dei modi i dati anamnestici del paziente e tramite il colloquio comprendere quale sia l’entità del problema. Il medico competente in materia di lavoro attuerà una serie di passaggi all’interno dell’azienda e di contatto con le figure di riferimento al suo interno al fine di ridurre lo stress del lavoratore migliorandone così le condizioni di salute, che limiteranno così anche i costi aziendali da assenteismo ed infortuni stress correlati.

Stress da ritorno? Non fate finta di niente, parlatene

Stress da ritorno? Non fate finta di niente, parlatene

Si attribuisce la colpa al tempo, alla pioggia, al cielo molto spesso ingrigito da nuvole minacciose.

Invece, il fatto di non aver gustato la vacanza e di essere tornati dalle ferie stanchi e arrabbiati dipende solo da noi, dalla nostra incapacità di non aver sfruttato per il meglio il periodo di riposo.

“Chi si trova in questo stato d’animo è consapevole del suo limite che consiste nel non aver trovato relax e serenità al momento opportuno – è l’analisi di Mario Troiano, psicologo e psicoterapeuta – La consapevolezza aumenta il suo malumore quando si deve tornare al lavoro e alle attività di sempre”.
Tutta l’estate non abbiamo fatto altro che parlare del brutto tempo che ha rovinato le vacanze. Non averle trascorse come avremmo voluto può condizionare davvero la ripresa?
“Certo, non a caso si parla di stress del ritorno, fisico e psicologico. Ci sentiamo stanchi, svogliati, nervosi, scontenti. Sensazioni acuite dal fatto che attorno a noi sembra di vedere al contrario colleghi soddisfatti e allegri, anche se in realtà non è così. Magari sono nelle stesse condizioni, ma fingono “
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Cosa suggerire per rincuorare chi riprende il lavoro con la sgradita sensazione di non aver mai << staccato >> la spina?
“Che le vacanze non si vivono solo d’estate. A volte un lungo fine settimana di settembre o ottobre, trascorso in compagnia degli amici fuori città ha effetti miracolosi. Quindi non perdere le occasioni di fuga fuori stagione. Possono regalarci sprint, equilibrio e serenità e aiutarci ad affrontare con lo spirito giusto il primo giorno di scuola”.

Un consiglio per chi torna in ufficio con i nervi a fior di pelle?

“Non far finta che tutto sia andato bene, ma parlane apertamente con i colleghi. E, soprattutto, non utilizzare l’alibi del maltempo per giustificare una vacanza sprecata. Se guardiamo in noi stessi scopriremo che la colpa è solo nostra”.
CONSIGLI PER IL RIENTRO:
“Per evitare di sentirsi svogliati – spiega Mario Troiano – nervosi e scontenti, tornati a casa occorre analizzare realisticamente i giorni di riposo passati, senza convincersi che sia andato per forza tutto bene. Spesso non si riesce a sfruttare al meglio il riposo. Utile concedersi qualche fuga in autunno”.

Fonte: Corriere della Sera

All’asilo senza piangere

All’asilo senza piangere

Urla, pianti, capricci… questo ed altro la mattina del primo giorno di asilo.

Non sempre infatti i piccoli scolari sono ben disposti a cominciare questa nuova avventura, e il loro dissenso viene apertamente manifestato sia con i genitori che con le maestre.

Sicuramente si tratta di un cambiamento importante a cui si deve dare il giusto peso.

Genitori e maestre devono essere capaci di accogliere il disagio del bambino, per poi restituire lui una maggiore tranquillità. È frequente che i bambini vadano all’asilo (o al nido, per cui vale lo stesso discorso e gli stessi consigli) “a correnti alterne”: manifestando gioia o disperazione a seconda del loro stato d’animo.

Capita anche che l’arrivo di un fratellino o di una sorellina che sta a casa con la mamma mentre il piccolo è all’asilo, sia fonte di gelosia e di capricci per non andarci. Il più delle volte, il motivo principale dei capricci di un bambino che non vuole andare all’asilo o al nido non è altro che la paura dell’abbandono da parte dei genitori, cioè l’angoscia di poter essere separati dalla mamma o dal papà.

Si tratta di una sofferenza comune che nasce da un timore tipico della crescita dai sei mesi fino ai 5-6 anni di età. Questi timori si manifestano, in particolare, nei confronti della principale figura di riferimento, la mamma, con cui i bambini hanno avuto, nei primi mesi di vita, un legame di completa dipendenza.

Il distacco dalla mamma deve avvenire in maniera lenta e graduale, proprio perché nei primi anni di vita la madre è stata l’intero mondo del bambino. Sarebbe bene magari abituare il piccolo a stare qualche ora senza i genitori, magari in compagnia di un parente, con altri bambini, giusto il tempo di fargli sperimentare che l’allontanamento del genitore non implica l’abbandono. Il bambino deve capire che quando la mamma o il papà vanno via tornano.

Con il passare del tempo i bambini inizieranno ad interagire con l’ambiente esterno attraverso l’esplorazione, il gioco e la socializzazione. Successivamente, frequentando il nido o l’asilo, inizieranno il percorso che li porta all’indipendenza. Durante questa fase, quindi, i bambini cercano sempre la mamma e la famiglia come fonti di affetto, stabilità e accudimento e non vorrebbero staccarsene mai.

Il primo giorno al nido o all’asilo o la nascita di un fratellino di cui si è gelosi o l’essere stati sgridati o messi in castigo dall’educatrice o l’aver litigato con un amichetto possono enfatizzare il bisogno di sicurezza dato dalla mamma, provocando un rifiuto verso la struttura, gli educatori e i compagni.

L’insegnante dal suo canto, dovrebbe anch’essa rassicurare il bambino, ma non sminuendo i suoi timori, bensì facendogli notare che gli stessi suoi disagi sono condivisi anche dai coetanei, dimostrandogli anche quindi la normalità e la ricorrenza in tutti i bambini di queste paure. Dovrebbe poi mettere a disposizione del bambino, oltre che uno spazio fisico dove egli possa essere contenuto, anche uno spazio mentale, accogliendo i pensieri del piccolo e condividendo con lui tutto ciò che concerne l’avventura scolastica e la socializzazione con i bambini.